L’esercizio quotidiano di entrare nel merito di provvedimenti e misure può alimentare, anche implicitamente e senza dolo, una forma di “realismo” per cui in politica tutto, grossomodo, diventa legittimo e presentabile. È accaduto nell’opinione pubblica anche per quanto riguarda il protocollo Italia-Albania sui migranti: la doverosa disamina degli intendimenti del governo di Roma, i particolari operativi dell’accordo con Tirana, le interlocuzioni con l’Unione Europea circa la plausibilità della misura hanno “normalizzato” la logica culturale che sottende il protocollo. Anche la cronaca delle ultime settimane – l’intervento del tribunale di Roma a garanzia dei migranti trasferiti e la reazione del governo – ha, nel complesso, contribuito a far passare l’idea che i centri in Paesi terzi siano, semplicemente, una opzione tra le altre nel vasto e complesso capitolo delle politiche migratorie.

Ma lungo questa strada si rischia di perdere di vista l’essenziale. Di non porsi più le domande di fondo. Nel caso specifico: è davvero “politica” la scelta di prelevare degli esseri umani quasi al termine di una drammatica traversata di mare e di terra, e portarle dove non vogliono, per un tempo mai definibile con certezza, verso un esito che potrebbe violare i loro diritti fondamentali?

Se ci astraiamo – non è facile – dal tam tam delle dichiarazioni tambureggianti della politica e delle repliche non poche volte border line delle correnti della magistratura, resta oggettivamente un senso di vuoto e spaesamento. A 76 anni dall’entrata in vigore della Costituzione italiana e della Dichiarazione universale dei diritti umani, a 74 anni dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo, tutto ciò che sanno produrre sui fenomeni migratori le democrazie liberali, quella italiana in testa, è il trasferimento coatto in un “altrove” che coincide con un “ovunque purché non sotto i miei occhi”?

In risposta a questa domanda, molti tirano in ballo la “crisi della democrazia”, che di certo le pressioni migratorie aggravano. Ma non è proprio la crisi di senso e di scopo della democrazia a richiedere il ritorno a una base valoriale che motivi le scelte concrete? O ci si illude che una sorta di “cinismo di massa”, calmierato da qualche pillola di umanità, possa salvare le fragili istituzioni occidentali? In questo contesto sorprende fino a un certo punto che anche in seno all’Unione Europea gli interventi “modello Albania” vengano annoverati tra le cosiddette «soluzioni innovative»: per Bruxelles, che ormai sui diritti procede a velocità differenziata a seconda della “popolarità” dei temi, portare la disperazione in luoghi (quasi) invisibili è più comodo che approntare reali soluzioni strutturali, con relativi investimenti economici condivisi.

Al netto della complessità del fenomeno migratorio, la sensazione è che la politica italiana, europea ed euroatlantica in generale stia provando a trasmigrare dal “realizzare il possibile” al “compiere l’impensabile”. Dove per “impensabile” non si intendono grandi sogni e orizzonti, ma quelle azioni che non vorremmo mai vedere rivolte contro noi stessi, le persone che amiamo, le nostre comunità di appartenenza.

Tuttavia quando si prova, nel nome di valori che sino a pochi anni fa apparivano condivisi, a criticare determinati schemi politici semplificatori e, appunto, “cinici”, arriva di tutta risposta l’accusa di non essere “realistici”. Ebbene, oltre alla sfida dei valori di fondo che sottendono l’azione politica, anche quella del “realismo” va presa di petto, senza timori, proprio da chi vorrebbe impegnarsi nella sfera pubblica senza perdere un orizzonte etico. E l’indirizzo su come coniugare ideali e realtà viene costantemente dal magistero di papa Francesco. Che ieri, sui migranti, ha ricordato come «accogliere, accompagnare, promuovere e integrare» i migranti non sia solo un’opzione morale, ma una pragmatica e concreta necessità politica per un Paese in cui la crisi demografica morde e mette a rischio il futuro di tutti.

Marco Iasevoli

Pubblicato su ww.avvenire.it

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