Come ho già scritto in un precedente articolo” Questione migratoria e modello di integrazione” (CLICCA QUI), per affrontare un fenomeno epocale come quello dei migranti servirebbe una vera, politica, forte dell’ Unione Europea. Se fossimo un unico Stato, non ci sarebbero più coste italiane, ma coste europee; non ci sarebbe più (solo) il Governo italiano ad occuparsene, ma il Governo dell’Europa: una forte idea di Europa, che coinvolga le singole comunità per la costruzione di un’organizzazione sociale nuova, più solidale ed inclusiva. Sogno o utopia?
Con il dolore nel cuore “per i nostri fratelli di Cutro” presento la diretta testimonianza di un emigrante che dalla Costa d’Avorio ha raggiunto -dopo oltre un anno di un viaggio infernale- Lampedusa.
Sognando un lavoro.
“Mi chiamo Ab.. Wa.. Tou..: sono il primogenito della seconda moglie di mio padre che morì nel 2015; io avevo pure un fratello più piccolo di me, ma anche lui morì nel 2016.
Dopo la morte di mio padre cominciarono i guai per me e mia madre perché i miei fratellastri accusarono che era stata mia madre a ucciderlo con una stregoneria e volevano venire a casa mia per ammazzare mia madre. Venne qualcuno che la avvisò e lei scappò da sola per la capitale Abidjan per non farsi trovare e mi lasciò da solo. I miei fratellastri mi presero e mi trattarono peggio di uno schiavo: mi facevano fare dei lavori forzati senza pietà, maltrattandomi anche se io non avevo fatto niente di male. Mia madre era innocente, ma in Africa le superstizioni dominano su tutto.
Dopo un po’ io riuscii a scappare e andai lontano a casa di mia zia in un altro villaggio; restai lì un mese fino quando un giorno una gang di criminali della Costa d’Avorio i “ MICROBES” penetrarono in casa di mia zia.
Da quasi un decennio la Costa d’Avorio sta attraversando una profonda crisi socio-politica che colpisce il paese alle sue radici più profonde. Uno dei segni più tangibili di questa crisi rimane il sorgere del fenomeno dei ‘microbes’.“Si tratta per lo più di bambini di età inferiore ai 18 anni raggruppati in baby-gang che con machete e coltelli assaltano, saccheggiano e uccidono. Si confermano una vera minaccia per la tranquillità delle popolazioni ivoriane”. A parlare a Fides di questo fenomeno è padre Donald Zagore, sacerdote ivoriano della Società Missini Africane. “E’ l’espressione di una Costa d’Avorio in piena decadenza morale e sociale. Un Paese in cui i valori morali di lavoro, disciplina, rispetto e unità non hanno davvero alcun impatto sulle sue figlie e sui suoi figli e, soprattutto, sulle sue giovani generazioni. È il risultato di tutte le scelte politiche egoiste, basate sulla violenza, che hanno sacrificato nel corso della storia l’interesse del popolo ivoriano e specialmente della gioventù ivoriana a causa delle eccessive ambizioni personali”, continua a spiegare padre Zagore.
“Il governo ivoriano sembra essere incapace di combattere questa piaga. Addirittura la gente sospetta che questi giovani criminali siano supportati dal governo per mantenere la popolazione in pericolo. È importante porsi questa domanda: quale futuro ci si aspetta per una Costa d’Avorio dove il bambino, che nella sua stessa natura rappresenta il futuro, è già bruciato? Purtroppo alle giovani generazioni è stato insegnato che la legge del più forte è sempre la migliore, e che il successo può essere raggiunto solo con la violenza, in particolare con l’uso delle armi, bianche o nere non importa”.
Questi ‘microbes’, entrati a casa di mia zia, volevano rubare soldi e tutto quello che era di valore , ma mia zia non aveva niente : il capo di questa gang prese un coltello e la colpì fino alla morte. Io scappai dalla finestra laterale senza che loro mi vedessero e montai su un albero in attesa che se ne andassero.
Dopo che si allontanarono ritornai a casa e vidi il corpo di mia zia a terra. Era morta: piangendo, la seppellii; restai lì una settimana e dopo andai da un amico che per me è come un fratello: gli dissi quello che mi era successo; mi aiutò a partire e mi diede dei soldi per arrivare in Niger. Arrivai in Niger a Niamey (e poi a Agadez)
A proposito del Niger si segnalano i progetti implementati dalle OSC italiane nell’ambito del programma DESERT, in particolare il cantiere di costruzione di 500 case sociali realizzate da CISP e una “ferme école” creata da COOPI che contribuisce alla formazione di 3000 giovani a pratiche agricole adattate alle zone aride. Sostenuto da un budget di 13.790.000 € di finanziamenti europei, il programma DESERT costituisce una delle maggiori testimonianze dell’impegno di AICS nel settore agrosilvopastorale, nell’imprenditoria e nella pianificazione urbana nella regione. La visita è poi proseguita alla sede dell’incubatore CIPMEN e della piattaforma di e-commerce Agad’art, iniziative locali sostenute da AICS che giocano un ruolo prominente nella creazione di posti di lavoro e nella promozione dell’imprenditoria. Ugualmente importante è stata l’ultima sezione della missione Aics, dedicata agli interventi di gestione dei flussi migratori, in particolare il centro di transito di migranti di OIM ed il campo di accoglienza per rifugiati di UNHCR. Gli incontri con i migranti, reduci da viaggi spesso disperati, così come con il personale che si impegna ogni giorno a fornire assistenza umanitaria in un contesto estremamente complicato, hanno permesso di comprendere l’importante ruolo degli aiuti italiani nella gestione delle crisi regionali e dei flussi migratori in Niger. Il panorama degli aiuti umanitari è stato al centro degli ultimi incontri a Niamey, che hanno coinvolto la Coordinatrice Umanitaria delle Nazione Unite in Niger, Louise Aubin, e i rappresentanti del paese nel Programma Alimentare Mondiale (PAM).
Ad Agadez (città del Niger) incontrai un ragazzo ivoriano con un suo amico del Niger, io parlo e comprendo la lingua Zarma del posto; e a lui chiesi aiuto per arrivare in Libia: lui era in contatto con persone che conoscevano le strade per raggiungere la Libia e mi consigliò come partire senza avere i soldi sufficienti. Arrivai in Libia, a SABHA.
Lo chiamano il “ghetto di Alì” a Sabha, una fortezza nel deserto nel sud est della Libia, mura alte e filo spinato, miliziani armati di mitragliatrici lungo tutto il perimetro, dentro due gironi danteschi, uno per uomini, l’altro per donne e bambini, dove da mesi vengono tenuti prigionieri un migliaio di migranti, sottoposti a violenze di ogni genere, torture in diretta telefonica con le famiglie rimaste nei villaggi, filmate e inviate per spillare altri soldi. Il mare, il miraggio di quella costa dove sono diretti per imbarcarsi su un gommone fatiscente o su una qualsiasi carretta che li porterà in Italia, è ancora molto ma molto lontano da lì, quasi 800 chilometri. E’ la prigione “privata” dei trafficanti di uomini, impenetrabile e feroce, quella in cui le milizie delle organizzazioni criminali che portano in Europa centinaia di migliaia di migranti, torturano, violentano, stuprano, uccidono senza pietà: qualsiasi cosa pur di incassare, e su banche estere, altri soldi, un riscatto per la vita di uomini, donne e bambini rapiti nel deserto lungo la rotta del centro Africa, Costa d’Avorio-Burkina Faso- Niger-Guinea Bissau, o portati lì con l’inganno da presunti mediatori del viaggio. Chi può paga e, se resiste, nel giro di qualche mese è fuori con segni indelebili sul corpo e nella mente, chi non può viene ucciso. Chi prova a scappare viene stroncato alle spalle da colpi di mitragliatrici.
A SABHA mi lasciarono lì davanti a un grande magazzino: il trafficante mi chiese 40.OOO CF, ma io non avevo soldi e per questo mi vendette a due fratelli libici che mi portarono in un’altra città : ZABRATHA.
Qui cominciai a lavorare come schiavo nel terreno agricolo di questi due fratelli: il più grande era molto cattivo; il più piccolo era più gentile e quando suo fratello era assente mi dava dei soldi di nascosto. Fu lui ad aiutarmi: mi chiese se volessi partire e ad una mia risposta positiva, sapendo che non avevo i soldi, mi disse di aspettare fino a quando il barcone per il viaggio fosse completo: mi portò a casa sua e mi nascose da suo fratello fino al giorno della partenza.
Lui avrebbe convinto i suoi amici a farmi imbarcare e fu così.
Eravamo in una grande barca, mentre eravamo in mare dei militari libici di ZAWYA bloccarono la nostra barca e ci portarono indietro in questa città, più precisamente in una grande casa: qui le persone che non avevano soldi sarebbero state vendute; gli altri sarebbero stati lasciati liberi.
Il guardiano della prigione era un africano del Ghana: ogni giorno ci bastonava e torturava. Un giorno alcune persone – dietro pagamento – riuscirono a uscire e imbarcarsi per l’Italia; io riuscii ad arrampicarmi sul tetto di quella casa perché vidi una fessura lassù e poi mi buttai da lassù a terra; mi feci male a una gamba e cercai di raggiungere (approfittando di quella confusione) i gruppi che si sarebbero imbarcati: erano divisi a gruppi di dieci persone.
Il capo ci obbligò a sollevare il barcone per metterla a mare e approfittai della confusione; mi accodai con gli altri e salii senza che nessuno si accorgesse di me: eravamo troppi e cercai comunque di nascondermi bene. Nessuno mi vide : molti erano seduti sul bordo, era pienissima di persone ma dopo tre giorni il barcone restò senza carburante; il mare era troppo forte e molte persone- me compreso- cadevano in mare, ma grazie a Dio qualcuno mi prese e mi tirò su una nave di soccorso, mentre molti morivano: si sentivano urla e grida di aiuto. Il mare era nero; ero buio e io pregavo Dio di non farmi morire. Ora sono ospite nella Villa Santa Maria dei padri rogazionisti di Messina.
Quando arrivai qui, ebbi la possibilità di contattare un amico in Costa d’Avorio e mi disse che i miei fratellastri erano andati alla polizia, denunciando che eravamo stati io e mia madre ad uccidere nostro padre.
Per questa ragione non posso più rientrare nel mio paese d’origine. Adesso grazie all’intervento di una persona che io chiamo “ papà Africa” e dell’avvocato…….ho rinnovato il mio documento di soggiorno : ho trovato un lavoro e sono più sereno e felice ”.
Nino Giordano