Come è stato scritto da Giancarlo Infante, le elezioni amministrative, con il record dell’astensionismo elettorale, hanno mostrato che “questo bipolarismo è una farsa che non esiste più” ( CLICCA QUI ). E d’altronde i disordini pubblici, fortunatamente da un po’ di tempo spariti dalla vita pubblica italiana, con l’assalto alla CGIL, stile squadrismo anni venti, le manifestazioni sparse qua e là contro l’obbligo green-pass mostrano inquietudine, sfiducia, smarrimento, ma testimoniano soprattutto – in un’ Italia che vuole riprendersi dopo il Covid, ma fatica a farlo- l’incapacità delle classi dirigenti attuali di dare risposte ai problemi comuni.
Tutti in questa tornata elettorale in un certo senso hanno perso, le forze politiche, anche quelle locali, le istituzioni, persino i vincitori dei ballottaggi, come ha scritto Sabino Cassese ne Il Corriere della Sera del 20 ottobre. Semplicemente non si crede più alla politica come soluzione. Al massimo si crede negli uomini della necessità ( come un tempo in quelli della Provvidenza). O semplicemente si può puntare su un uso ( disperato) della forza. Per tornare a una politica “credibile”, bisognerebbe invece cominciare a dare una risposta a tutto questo.
Cosa è davvero successo? C’è qualcosa, una sorta di virus, che ha “distrutto”, o comunque alterato il senso della rappresentanza politica ( e di ogni atto elettorale insieme). E’ l’errore che sta alla base della fede nella “democrazia aritmetica” ( uno vale uno, e quindi la maggioranza decide) ed anche della “democrazia diretta referendaria” radical style, che oggi sono presentate come soluzioni per la “digital age”, ma sono invece la via per le democrazie illiberali. L’ errore è quello della confusione della volontà popolare con il numero dei suffragi. Come spiegare altrimenti quel fenomeno per cui una forza politica, ampiamente maggioritaria nelle urne, finisce poi per rivelarsi, a brevissima scadenza, minoritaria e di fatto per essere abbandonata rapidamente dai suoi sostenitori dopo appena un anno o due, con conseguenze sulla continuità dell’azione di governo ?
È un errore che forse è stato favorito dall’eccessiva attenzione ai sondaggi, che rivelano appunto solo i numeri e non il grado di forza di consenso che va alle singole forze partitiche. Un conto è scegliere un candidato perché ci è simpatico, o perché è il “meno peggio”, un conto sceglierlo perché siamo profondamente convinti del suo programma. I sondaggi però non danno un peso diverso a questi diversi tipi di consensi.
Un tempo i bistrattati sistemi proporzionali autentici impedivano la semplificazione grossolana della lotta politica, tipica di questa democrazia in cui “si sceglie la persona”. Ma in che modo lo impedivano? La risposta è in una analisi raffinata compiuta da un filosofo che aveva anche una mente matematica, Antonio Rosmini. In un testo del 1842, la Filosofia del diritto, Rosmini aveva notato: “ Quante volte nei civili conflitti si scorge prevalere improvvisamente la minoranza? Dalla quale sogliono sempre sortire le rivoluzioni. E bene, qual è la ragione di un fenomeno sì inaspettato? Ella è, che la forza prevalente delle volontà non risulta solamente dal numero di esse, ma ancora dal grado di forza di ciascheduna. Ora questo grado di forza delle singole volontà rimane trascurato nelle usate elezioni, le quali perciò riescono inette a rappresentare la volontà complessiva che veramente prevale de’ votanti”.
La correzione di questo difetto della votazione a “maggioranza assoluta” secondo Rosmini si poteva realizzare attraverso la espressione del voto, per ogni singolo votante, su un ordine di preferenze, che poi è il principio su cui si basa il sistema proporzionale, che non tende a contrapporre tendenzialmente solo due parti (o il partito A o il partito B, tertium non datur) ma appunto le dispone in ordine di preferenza. Un ordine di preferenze che favorisce la valutazione comparativa delle posizioni politiche e delle capacità dei candidati, che “vincono” molto meno per capacità di contrapposizione, che per merito personale e credibilità del programma politico. Il principio di competenza può così non contraddire il principio democratico e quindi tornare a far parte dei requisiti necessari ( non più dei requisiti superflui) di una vera classe dirigente. Questo, fra l’altro, era il senso vero ed originario di un sistema di preferenze, che poi però si tradusse, in assenza di norme sui partiti, lo sappiamo bene, in uno strumento di consenso clientelare, o addirittura, di controllo del voto. Ma questo non era la sua funzione originaria ed essenziale.
Il sistema proporzionale – realizzatosi compiutamente in Italia nel secondo dopoguerra- ha infatti valorizzato al massimo la “priorità assiologica” che spetta alla democrazia rappresentativa rispetto alla democrazia diretta. Valorizzazione essenziale per l’ Italia che usciva, umiliata e deresponsabilizzata, dal ventennio di dittatura personalizzata fascista. Il sistema proporzionale aveva favorito o comunque garantito la responsabilità delle classi dirigenti. È infatti incontestabile che la responsabilità politica postuli la distinzione tra chi “risponde” e chi fa valere la responsabilità. Essa, pertanto, senza istanze rappresentative, non esiste; poiché solo tali istanze rendono possibile al corpo elettorale sanzionare, con lo spostamento dei consensi, le maggioranze politiche che non abbiano soddisfatto le attese. Niente di tutto questo può succedere in una ipotetica democrazia immediata o diretta e neppure in un sistema bipolare fortemente personalizzato in cui l’elettore, scegliendo non il partito, ma la persona ( si dice, perché onesta, intelligente, perché imprenditore di successo ) finisce per identificarsi con l’eletto ed a condizionare il medesimo eletto che deve conquistarsi il consenso rispondendo sempre ai bisogni immediati del suo elettore ( o mantenere il consenso delegando il lavoro sgradito ad un “tecnico”).
Noi abbiamo avuto, dopo gli anni del cosiddetto sistema elettorale Mattarellum, una progressiva dequotazione della rappresentanza politica. E quindi anche della responsabilità della classe dirigente. Col 2005 poi si inaugurò una serie di leggi elettorali- successivamente riconosciute dalla Consulta come incostituzionali, giunta a quella esistente fortemente indiziata anch’essa di incostituzionalità- che alterarono progressivamente il senso della rappresentanza, distruggendone le basi costituzionali. Personalizzazione della lotta politica, depoliticizzazione e imbarbarimento del confronto elettorale ( col ricorso alla macchina del fango e con l’uso politico spericolato di magistrati che avevano acquisito visibilità in azioni giudiziarie ) furono alcuni degli esiti più noti. Il virus della politica era ormai divenuto epidemico. Poco alla volta le tematiche dello scontro politico si sono ridotte così ad a una sola questione, rozza e semplificata, che diviene quella decisiva, magari ad uno slogan fatto da una sola parola brandita contro l’avversario ( libertà, lavoro, diritti, sanità, detassazione, No green pass ecc.).
Certo i sistemi proporzionali fino al 1994 non avevano impedito in Italia il dilagare del potere partitocratico. Ma quel potere erroneamente è stato imputato alla legge proporzionale elettorale e non alle condizioni in cui essa ha operato. Tra l’altro, anche a causa della mancanza di una disciplina costituzionale dei partiti secondo l’art. 49 della Costituzione, su cui ora si richiama opportunamente l’attenzione. Quel sistema aveva impedito però il sorgere di quelle “democrazie illiberali” che mirano a combinare tra loro, in una direzione convergente, rivolta alla erosione della democrazia rappresentativa, l’uso strumentale e maldestro della “democrazia diretta” e le trasformazioni iper-maggioritarie dei sistemi elettorali, come ad esempio è successo in Ungheria. Si dimentica così che la rappresentanza non è un ferro vecchio del passato, e il Parlamento non è un ferrovecchio da buttare, in un futuro non troppo lontano, ma uno strumento raffinato, che serve essenzialmente a garantire la “responsabilità” delle assemblee, dei governi e quindi anche dei cittadini, e che essa è funzionale ad alimentare, attraverso la dialettica parlamentare, un pensiero complesso, che eviti la semplificazione del pensiero binario (bianco/nero) per cui ogni scelta politica sarebbe sempre la scelta tra due punti estremi, senza mediazioni.
Solamente un sistema genuinamente rappresentativo, nelle condizioni italiane, un proporzionale vero, può salvare il dialogo umano ed umanizzante della “politica”. Della politica come espressione vera di “cura delle persone” ( e non di pura tecnica di potere), contro gli slogan, la politica urlata, le illusioni tecnocratiche, la paura e la disperazione diffusa e il rifiuto della partecipazione.
Umberto Baldocchi