Gli ospedali reggono e cosi, fortunatamente, le terapie intensive, eppure la curva pandemica risale. Anche da noi, sia pure, per ora, in misura assai più contenuta di quanto non succeda in altri Paesi. Gli stessi cui siamo spesso invitati a guardare come a fari luminosi di civiltà. Cosicché, solo adeguandoci ai loro standard, potremmo considerarci altrettanto civili.
Lo hanno fatto, a suo tempo, i sostenitori dell’aborto, lo fanno oggi coloro che propugnano l’eutanasia, lo faranno domani, anzi già lo vanno dicendo, i “cavalieri dell’apocalisse” dell’ utero in affitto, della selezione degli embrioni o delle manipolazioni genetiche più ardite, del potenziamento funzionale e cognitivo diretto al mito del cosiddetto “post-umano”. Una volta tanto, è l’Italia ad essere esemplare e non succede a caso, per quanto molti, dentro e fuori i nostri confini, ne siano forse sorpresi.
Il merito è del Governo, dell’attuale, ma anche, e forse soprattutto, del precedente. Nella misura in cui, a fronte di un processo inedito ed imprevedibile, ampio e sfuggente come la pandemia, quel che conta è il partire con il passo giusto. Se si sbaglia l’approccio iniziale diventa difficile correggere la rotta in corso d’opera. Ma è altrettanto merito di una composta saggezza che non manca al popolo italiano ed è alimentata, nei momenti di difficoltà maggiore, da una falda profonda che attinge ad una capacità si direbbe innata, di cogliere la misura effettiva della posta in gioco.
Quell’ intima cognizione di sé che, anche quando non è messa espressamente a tema, rappresenta la “cifra” di un popolo, diventa, verrebbe da dire, un istinto, cioè un modo interiorizzato ed irriflesso, eppure efficace nell’orientare i comportamenti collettivi.
La cultura profonda di un popolo, non è acqua fresca e persiste nel tempo più di quanto il “nuovismo” incombente possa ritenere. Nasce da un radicamento antico, da una dimestichezza vissuta con i valori veri della vita, passati al vaglio di generazioni e generazioni. La fede profonda del popolo italiano, anche nella forma delle più semplici, immediate, perfino ingenue devozioni popolari, ha via via maturato una concezione della vita che, anziché soccombere alla fatica ed alla sofferenza, ne distilla una pacatezza serena, una “resilienza”, per dirla con un termine oggi in uso, maggiore di quanto crediamo a prima vista.
E’ vero che sono cambiati i costumi, gli abiti mentali, i comportamenti, i punti di repere, una volta stabili, oggi mutevoli ed incerti, eppure il rumore di fondo di una moralità diffusa, popolare, condivisa, fa sentire ancora, magari in modo apparentemente carsico, la sua voce. Si è poi detto, da più parti – chi seriamente, chi a fior di pelle – che nulla sarà più come prima. Eppure, appena la morsa si allenterà davvero, i nostri sforzi saranno diretti – ed è umanamente comprensibile che sia così – a ripristinare la situazione, lo stile di vita, gli impegni e le attese, più o meno esattamente, “quo ante”. Se non assisteremo, addirittura, ad una reazione di rimbalzo come se volessimo essere risarciti dalla vita di quel tanto di vita che c’è stato sottratto. Per questo è necessario riflettere adesso, nel momento in cui stanno scorrendo, forse, i titoli di coda di un brutto film, eppure l’impressione di ciò che abbiamo sofferto e subito è ancora viva e bruciante.
Fuori da ogni retorica buonista e zuccherosa, c’è effettivamente, o no, qualcosa di buono che possiamo trarre da questa esperienza? O dobbiamo solo dimenticare e lasciar perdere? E’ difficile, anzi impossibile dimenticare, se non altro perché viviamo rimbalzati da un’emergenza all’altra, dalla pandemia, al degrado ambientale, dalle migrazioni, ai rischi incombenti dell’integralismo islamico e del terrorismo internazionale. Tra democrazie, spesso smarrite ed alla ricerca di sé stesse, “democrature” ed autocrazie.
Non è escluso che ci si debba adattare a vivere, per una stagione ancora imprevedibilmente protratta della nostra storia, in una condizione esistenziale, personale e collettiva, di affanno, come se dovessimo nuotare controcorrente e con l’ acqua alla gola. Del resto, l’ala minacciosa della morte ci ha sorvolati, ovunque, a volo radente, alitando su tutti il suo fiato greve, carpendo molti, spaventando altri, provocando ognuno, nella sua cruda singolarità, a riflettere, obtorto collo, sul fatto che, in definitiva, la morte sia sì altro dalla vita, eppure l’una e l’altra si appartengono più intimamente che non le classiche due facce della stessa medaglia.
Non siamo ancora nella condizione del naufrago approdato ad una spiaggia sicura, eppure, se azzardiamo un primo esame dell’ intera vicenda, francamente non possiamo disperare della virtù del popolo italiano, che, in definitiva, pur tra mille ambasce – ed anche mettendo nel conto, fatte salve le strumentalizzazioni della destra, eversiva e no, il fenomeno “no-vax” – tale si è mostrato, sostanzialmente concorde attorno ad una disciplina comunque inusitata e severa. Non siamo vocati o condannati al populismo che non è una malattia congenita e neppure endogena, ma risponde ad un’altra etiologia.
Anche nelle società sviluppate non sono tutte rose e fiori e vi possono essere, disseminate qua e là, enclave di una demagogia endemica, cui certi untori attingono, diffondendo a piene mani l’infezione. Ma non è il caso di disperare.
Se l’organismo è memore della sua robusta costituzione, opportunamente alimentato, si riprende e ce la può fare.
Purché vi sia chi possa somministrargli dosi abbondanti di buona politica. Ed è qui che va raccolta la sfida.
Domenico Galbiati