l panorama/scenario demografico del nostro Paese propone due vedute: una ottima, l’allungamento della vita; l’altra pessima, la diminuzione verticale delle nascite. Come spiega da anni, inascoltato dalla politica, il prof. Blangiardo, già Presidente dell’Istat, la piramide delle età si sta rovesciando, perché la base è sempre più stretta e il vertice sempre più largo.

Nel 2050 la fascia dei sessantacinquenni sarà la più larga di tutte. Oggi gli ultraottantenni sono 4 milioni e 300 mila, gli ultranovantenni sono 774 mila. Il Rapporto Istat 2023 ci segnala che i giovani tra i 18 e i 34 anni sono oggi circa 10,33 milioni; nel 2002 erano oltre 13 milioni. Dove sono finiti 3 milioni? Non sono mai nati.

Da questi scarni dati insorgono interrogativi drammatici: l’Italia è destinata a svanire? Qual è il destino della nostra civilizzazione? Benché sia difficile definire la Nazione in modo univoco e condiviso, siamo tutti intuitivamente d’accordo che stiamo parlando dei nostri “santi, navigatori e poeti”, così almeno ci definì Mussolini il 2 ottobre 1935.

Tradotto ad oggi: parliamo di imprenditori, di artigiani, di scienziati, di filosofi, di scrittori, di pittori e scultori, musicisti, di costruttori strade e città, di cattedrali, di Papi, di migliaia di chiese, di santuari, di paesaggi, di borghi…

Si tratta dell’Italia che è stata e che perdura nel tempo, che attira milioni di turisti, che ha all’estero l’equivalente demografico degli Italiani rimasti qua – se contiamo fino alla terza generazione di emigrati.  Piero Bassetti da tempo li chiama “Italici” tutti quanti, quelli dentro e quelli fuori: un enorme patrimonio di cultura, di stile e… di cucine.

A chi lasceremo questa eredità, a chi passeremo il testimone?

In prima fila a rispondere con il pensiero e con l’azione a questa domanda dovremmo trovare coloro che ogni giorno fanno appello al MIGA – Make Italy Great Again! -, coloro che elevano quotidianamente inni e cantici alla razza italiana, coloro che hanno persino istituito il fallimentare Liceo del made in Italy…, coloro che masticano quotidianamente petardi nazionalistici nelle Camere e nelle piazze.

La soluzione non pare difficile: per allargare la base della piramide anagrafica occorre generare. Alla natalità si fa appello da anni. Ma la politica, che rappresenta piuttosto fedelmente le pulsioni immediate dell’opinione pubblica, da decenni sviluppa politiche contro la natalità.

È la politica bipartisan del debito pubblico, che è arrivato in questi giorni a 3 mila miliardi. Che è la risultante di reddito di cittadinanza, superbonus, mala-amministrazione, bonus e esenzioni dalle tasse, assistenzialismo pervasivo ecc…

A sua volta è la conseguenza di un affievolimento della coscienza nazionale e geopolitica delle classi dirigenti. Solo classi dirigenti consapevoli e fiere della propria civiltà e della propria storia si preoccupano del futuro della Nazione.

E pertanto investono sui giovani, sulle giovani donne che desiderano figli, sulla conciliazione necessaria tra lavoro, carriera, figli. Mettere le giovani donne in condizioni di generare figli richiede un investimento spirituale, finanziario, economico e sociale straordinario sul futuro del Paese in quanto Nazione, collocata in Europa e nel mondo. Si può solo constatare, al contrario, che se la retorica è forte, il pensiero è debole. E l’azione assente. Eppure, non mancano le proposte e gli esempi di altri Paesi.

Quella della natalità è una strada, forse e ormai irreparabilmente insufficiente. L’altra strada per allargare la base della piramide anagrafica è quella di estendere la cittadinanza italiana a coloro che arrivano in Italia attraverso l’immigrazione.

Da tempo, almeno dalla Legge n. 91 del 5 febbraio 1992 sulla cittadinanza, si incrociano al riguardo formule latine: “jus sanguinis”, “jus soli”, “jus soli temperato”, “jus scholae”, “jus culturae”… La discussione si è riaccesa in questi giorni, in occasione delle Olimpiadi.

In realtà, la Legge 91 sulla cittadinanza c’entrava poco con gli immigrati, quanto piuttosto sugli italiani emigrati e sui loro discendenti. Essa ha rafforzato il principio dello “ius sanguinis”, perché ha ridotto da cinque a tre anni il tempo in cui devono risiedere in Italia i discendenti degli italiani che vogliono ottenere la cittadinanza, mentre ha portato da cinque a dieci anni il periodo di residenza necessario per lo stesso fine degli immigrati non europei.

Negli anni successivi al 1992 ci sono stati tentativi di affrontare più realisticamente la questione. Nel 1999 la Ministra Livia Turco, nel 2006 Giuliano Amato, nel 2009 i deputati Sarubbi del PD e Fabio Granata di FI hanno proposto che i figli di immigrati, che fossero vissuti legalmente e continuativamente in Italia almeno per cinque anni, potessero ottenere la cittadinanza all’età di cinque anni (Turco) o a diciotto anni (Sarubbi/Granata), previo superamento di un test di integrazione civica e linguistica e di un giuramento sulla Costituzione. Si superava lo “jus sanguinis” a favore di uno “jus sanguinis temperato”, di uno “jus scholae”, di uno “jus culturae”. Proposte tutte fallite.

Intanto il 27 novembre del 2018 la Camera approvò il DdL 840 relativo alla sicurezza e all’immigrazione, che ha gettato altri immigrati sulla strada. Il meccanismo è noto: lo Stato accoglie l’immigrato in un CPR, Centro di permanenza per i rimpatri. Per decidere se tenerselo o no impiega circa due anni. L’espulsione, però, è per il 99% dei casi solo cartacea. Così “l’espulso” vaga per tutto il territorio nazionale senza fissa dimora, in preda alla delinquenza, va a riempire le carceri o finisce nelle grinfie dei nuovi schiavisti.

Ovviamente, ciò non risolve definitivamente i problemi. Infatti, che significa oggi “schola” per i ragazzi, che diventino italiani per “jus scholae”?

Basterà un esempio: se un ragazzo arriva a undici anni in Italia, senza conoscere la lingua, lo metteremo direttamente in Prima media, al fine di non “differenziarlo” rispetto ai suoi compagni? È ciò che viene fatto normalmente per deriva burocratica, nel nome di un nobile egualitarismo.

Risultato? Il tasso di dispersione dei figli di immigrati è del 36,5%, quello dei “nativi” è dell’11,3%. Servono, invece, a chi arriva corsi differenziali accelerati di lingua, corsi preparatori, costruzione di percorsi personalizzati. Anche per “i nativi”.

Ma qui ci si ferma. Perché, volendo proseguire nel racconto, si dovrebbe prendere atto che il sistema educativo italiano sta perdendo progressivamente la capacità di integrare i ragazzi, nativi o immigrati, nella civiltà dell’Italia.

Qual è la posta in gioco?

Se l’Italia cesserà di essere attrattiva come luogo dove vivere e lavorare, diventeremo un Paese-necropoli.

Giovanni Cominelli

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