Il ruolo degli immigrati nel mercato del lavoro italiano è destinato a crescere nei prossimi anni per due semplici motivi: la riduzione della popolazione italiana in età di lavoro e il fabbisogno di nuovi lavoratori in molti settori ad alta intensità di occupazione. L’aumento della domanda di lavoro per gli immigrati è accompagnato dalla crescita del numero dei cittadini stranieri in condizione di povertà assoluta e dei lavoratori immigrati sottoccupati. L’enorme mole delle domande inoltrate per i nuovi ingressi di lavoratori extracomunitari con la procedura del “click day”  risulta disallineata rispetto alle caratteristiche della domanda di lavoro e alla consistenza delle imprese nei territori e il risultato finale, in termini di attivazioni di rapporti di lavoro, è del tutto deludente.

Sono i due principali indicatori che certificano la scarsa efficacia delle politiche per l’immigrazione in Italia. Un’evoluzione che deve essere attenzionata per riformare il sistema di programmazione dei nuovi fabbisogni lavorativi e per consentire una ripresa dei redditi della popolazione immigrata e la sostenibilità dei percorsi di integrazione nelle nostre comunità.<

L’approccio riformatore richiede in premessa una lettura corretta dei fenomeni migratori. Le stime demografiche aiutano a comprendere l’importanza del contributo dell’immigrazione per rimediare gli effetti del declino della popolazione, ma la programmazione dei fabbisogni per motivi di lavoro, e la sostenibilità dell’immigrazione, dipendono soprattutto dalla capacità di soddisfare le caratteristiche della domanda di lavoro e dalla remunerazione dignitosa delle prestazioni dei lavoratori immigrati. Queste condizioni non vengono soddisfatte dalle attuali politiche per l’immigrazione.

La programmazione dei fabbisogni avviene con approcci quantitativi del tutto generici e con modalità di gestione che hanno tempi incompatibili con le caratteristiche della domanda di lavoro. La maggioranza delle domande, superiore di 5 volte alle quote messe a disposizione, proviene dai territori del Mezzogiorno che hanno un tessuto ridotto di imprese e con livelli di disoccupazione decisamente più elevati. La gran parte dei cittadini stranieri che hanno ottenuto il permesso di ingresso, e delle imprese che li hanno richiesti, non si presenta agli sportelli per l’immigrazione per confermare il rapporto di lavoro.

Circa due terzi degli immigrati occupati, regolarmente residenti in Italia, lavorano in settori che registrano tassi di prestazioni sommerse di gran lunga superiori alla media nazionale (agricoltura, edilizia, servizi alla persona, logistica, turismo e ristorazione) con orari di lavoro dichiarati inferiori a quelli reali. La sostenibilità di questi mercati, poco attrattivi per le nuove generazioni, dipende dalla quantità della manodopera disponibile, possibilmente a buon mercato, ma il lavoro sommerso diventa una palla al piede per la crescita della produttività e dei salari contrattuali.

La partecipazione degli immigrati disoccupati alle misure di sostegno al reddito per motivi di carenza di lavoro (Naspi e disoccupazione agricola) risulta in linea con i livelli di presenza nel mercato del lavoro. Con tutta probabilità una parte di queste indennità viene usufruita anche in coincidenza delle prestazioni sommerse. La manipolazione dell’utilizzo delle quote d’ingresso fornisce un ulteriore potenziale contributo all’alimentazione del mercato del lavoro sommerso e smentisce la tesi, tanto cara ai sostenitori dell’esigenza di ampliare il numero delle quote, che la loro programmazione possa fornire un’alternativa legale rispetto agli ingressi irregolari.

L’esigenza di migliorare la qualità dei nuovi flussi d’ingresso per motivi di lavoro è stata attenzionata dalle istituzioni che hanno introdotto la possibilità di autorizzare gli ingressi fuori dalle quote per i migranti formati nei Paesi d’origine. Ovvero per quelli per motivi di formazione nel territorio italiano che possono essere trasformati in permessi di soggiorno per motivi di lavoro. Sono novità importanti, ma che per essere messe in atto richiedono interventi istituzionali, le intese con i Paesi di origine, in grado di precostituire un contesto favorevole per le attività di formazione e selezione dei potenziali lavoratori, e la mobilitazione di un numero adeguato di operatori in grado di svolgere questo compito.

Le intese con i Paesi d’origine per la cooperazione in materia di immigrazione richiedono tempo. Accordi che, allo stato attuale, risentono degli effetti della crisi delle relazioni geopolitiche nell’ambito internazionale che vengono del tutto trascurati.

Ci sono almeno tre fattori che meritano di essere attenzionati. Il primo è rappresentato dall’evidente cambiamento dell’orientamento geopolitico di molti Paesi africani, asiatici e sudamericani. Ovvero delle potenziali aree di provenienza dei nuovi migranti che dovrebbero compensare la forte riduzione dei flussi migratori provenienti dai paesi dell’Est Europa. L’aumento del potere contrattuale dei Paesi in via di sviluppo modifica il loro orientamento anche verso l’emigrazione dei loro cittadini delle giovani generazioni dotate di competenze utili per lo sviluppo locale. Nel contempo sta aumentando in tutti i Paesi sviluppati il fabbisogno di importare lavoratori formati, o da formare, per colmare il “mismatch” tra la domanda e l’offerta di lavoro.

Per questo obiettivo vengono mobilitati gli attori (le imprese, gli enti di formazione, gli intermediari accreditati) che sono funzionali a identificare i fabbisogni della domanda e a mettere in campo le iniziative per selezionare e formare i lavoratori. Questo scenario influenza le caratteristiche e le aspettative dei potenziali emigranti, italiani compresi, e pone seri interrogativi sulla capacità del nostro mercato del lavoro di attrarre lavoratori qualificati.

Gli esiti della programmazione dei nuovi flussi d’ingresso, le criticità dei percorsi di integrazione degli immigrati residenti, e l’impatto delle relazioni geopolitiche sui flussi migratori mettono in evidenza l’inconsistenza delle nostre politiche finalizzate a regolare l’immigrazione.

La riforma di queste politiche presuppone un’analisi corretta dei fenomeni e l’abbandono dell’idea che i riflessi negativi del declino demografico sulla natalità, nel mercato del lavoro e sulla sostenibilità delle prestazioni sociali, possano essere miracolosamente risolti con l’aumento del numero degli immigrati.

Il contributo delle politiche migratorie può essere positivo se accompagnato da un migliore utilizzo delle risorse già disponibili nel territorio, a partire dai lavoratori immigrati già residenti, da un aumento della produttività delle organizzazioni del lavoro e dell’attrattività del nostro mercato del lavoro.

Natale Forlani

Pubblicato su www.ilsussidiario.net

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