Questo secondo libro di Michele Marino è ben diverso dal precedente, che conteneva prioritariamente i suoi ricordi di funzionario dello Stato, impegnato ai livelli più alti, con incontri e frequentazioni di rilevanza primaria, come testimonia la serie di nomi citati nel testo (cfr. Una vita nel Palazzo. Autobiografia. Reportage di un “Inviato speciale”, Gangemi, Roma, 2022). Stavolta emerge maggiormente la persona di Michele, in primo piano come libero cittadino (e non più come civil servant), con le sue riflessioni sulla realtà sociale, sul mondo, sulla politica, sulla vita quotidiana, insomma un mosaico di vicende ed un affresco di impressioni con pennellate rapide e sferzanti, già evidenti nella scelta dei titoli dei capitoli, mai banali e sempre comunicativi al massimo sin dalla prima lettura.
Pure la dedica la dice lunga sulle intenzioni reali dell‟autore, che si fa osservatore del vissuto individuale e collettivo, con piglio quasi sociologico e senza scadere nel facile moralismo. Del resto, non è affatto casuale anche la scelta di Giuseppe Giusti per l‟esergo del volume: si chiama in causa proprio colui che, come si legge nella sua poesia “Sant‟Ambrogio”, mette “le birbe alla berlina”, cioè espone i birboni alla vergogna, alla derisione, come avveniva in passato nel medioevo ed ancora in pieno Ottocento, esponendo al pubblico ludibrio un accusato, un condannato, collocato su una panca o su un palco (appunto la “berlina”), dove campeggiava un cartello recante la scritta che indicava la colpa dello sciagurato.
La metafora è chiara: la “berlina” usata da Marino è il suo stesso tomo, ovvero le pagine dedicate alla corruzione ed alla
questione meridionale, alle nuove generazioni ed agli attentati, all‟uso delle dimissioni ed alle forme ironiche.
Come il Giusti cercava di condividere le sorti dei soldati austriaci inviati, lontano dalla casa e dalla famiglia, a compiere soprusi nel Lombardo-Veneto, così Marino prende le parti di tanti connazionali che si trovano ad agire fuori dalle regole, ma lo fa per trarne motivi di ammaestramento, ricavandone indicazioni promotrici di andamenti opposti, di rimedi efficaci, di contromisure adeguate. Insomma si tratta di un descrivere non per il gusto di condannare ma per offrire spunti di ragionamento, discussione, al fine di assumere decisioni utili al cambiamento dello status quo.
In fondo, anche Marino va “girellando”, come Giusti, alla ricerca di episodi da commentare, fatti da narrare ed interpretare, comportamenti da stigmatizzare però in vista di auspicabili miglioramenti. Gli “scherzucci di dozzina” proposti da Michele Marino sono certamente poca cosa rispetto ai mali maggiori delle malattie, delle povertà, degli sfruttamenti, delle evasioni fiscali, delle mafie, delle tossicodipendenze e di tante altre disgrazie italiane (e non), ma indubbiamente il sarcasmo ed insieme l‟orgoglio del Nostro autore servono molto ad interrogarci ed anche ad inquietarci sul nostro tendere al quieto vivere, mentre il mondo va in rovina, e sulla nostra atarassia o imperturbabilità, rispetto ai mali del mondo (per cui diciamo: “meno male che non è capitato a me”).
Detto altrimenti, qui non traspare odio per i colpevoli, i mistificatori, i mestatori, i guastafeste. Quel che se ne ricava è invece un invito a ripensare il nostro modo di agire, il nostro assuefarci a ciò che avviene attorno a noi, non solo in Italia ma pure in Palestina o Israele, in Ucraina o in Russia, nello Yemen o in Iran, o in molte altre parti del mondo.
Se Giusti si commuove al canto dei soldati austriaci, Marino prende parte alle vicissitudini del nostro Paese e s‟inquieta per
le cose che non vanno, per il potere che opprime, per la verità che non trionfa, per l‟onestà che non alberga in tutti.
Michele Marino, peraltro, non esprime giudizi in segreto sugli altri per poi lasciarci indovinare i soggetti in causa (come avviene nel gioco di società detto appunto “berlina”). Anzi egli è persino molto esplicito ed indica dati di fatto ed autori, senza remore di sorta. Tutto è chiaro e riconoscibile.
Forse può lasciare perplessi lo stile un po‟ sbarazzino e meno misurato (rispetto all‟opera pubblicata in precedenza), ma qui la variante del modo di porgere dell‟autore riesce ad avere ragione rispetto a qualche possibile riserva appunto sul piano stilistico. In effetti, bisogna riconoscere che la scelta fatta in tal senso è pagante, in quanto il lettore segue meglio l‟andamento del discorso, che gli pare fare parte di un tran-tran quotidiano, quasi di amici che s‟incontrano per strada e parlano di quanto è capitato loro quel giorno stesso o in un passato più o meno recente.
Ricorrenti sono poi i modi di dire abituali, i proverbi, le frasi fatte, le citazioni dotte, insomma tutto l‟armamentario di un discorrere intessuto di riferimenti di varia provenienza, non esclusa quella tipica del contesto di Strapaese riferito alla città di origine dell‟autore, Cerignola, nel tavoliere delle Puglie. Il che non deve suonare come una deminutio capitis, ché anzi si ha a che fare con una tradizione letteraria importante che ha avuto in Leo Longanesi e Curzio Malaparte due esponenti di spicco.
Lo stesso titolo del libro è una dichiarazione d‟intenti nel senso che fa capire subito la propensione dell‟autore a sceverare nettamente fra ciò che è accettabile e ciò che non lo è. Però la realtà delle persone e dei fatti non è mai classificabile nettamente come bene o male, giusto od ingiusto, gradito o sgradito e così via. Sovente vi sono delle sfumature, delle nuances, per cui alla fine anche nei confronti del criminale più incallito non è detto che non si possano applicare le attenuanti
generiche o che non si possa lasciare aperto uno spiraglio, per comprendere le ragioni del suo agire.
Infine, conviene mettere in conto che il lettore di questo libro si veda chiamare in causa, perché quanto qui narrato potrebbe riferirsi pure a qualche suo comportamento. Ed allora vale il classico detto latino: de te fabula narratur, espressione del poeta di Venosa (non lontana da Cerignola, patria di Marino) Quinto Orazio Flacco (Satire, I, 1, 69-70), che dopo aver parlato dell‟avaro così si rivolgeva al suo lettore, per invitarlo a considerare come applicabile a se stesso l‟insieme dei riferimenti presenti nel testo. Detto ciò, chi legge questo libro non può fare orecchi da mercante, né può trascurare l‟ipotesi di essere egli stesso il lupus in fabula. Insomma: una lezione per noi tutti italiani.
Roberto Cipriani