Prosegue l’elaborazione di INSIEME sui temi generali della politica industriale che già hanno portato, nel corso dello scorso anno, alla pubblicazione del Terzo quaderno (CLICCA QUI) curato da Roberto Pertile. Questo ulteriore impegno presenta il titolo “Giustizia, coesione sociale e sviluppo”, e prende le mossa dal seguente contributo di Roberto Pertile e di Domenico Galbiati
La dicotomia di cui il nostro sistema politico soffre e che, ad un tempo, proietta sul Paese colpisce indiscriminatamente qualunque questione rientri nell’agenda politica del momento.
Così avviene, infatti, anche per salario minimo e reddito di cittadinanza.
Argomenti che, anziché essere agitati come bandierine identitarie, andrebbero, anzitutto, collocati nel quadro di un sistema economico -produttivo che ha perso per strada quella capacità “inclusiva” che è stata il suo pregio in altre fasi della nostra storia, in modo particolare negli anni in cui l’Italia si avviava verso il “boom” economico. Bastava ampliare le maglie del sistema produttivo per assorbire occupazione.
Oggi succede esattamente il contrario. I processi produttivi si sono fatti più raffinati, più articolati e, ad un tempo, la globalizzazione, anziché tendenzialmente appianare le diseguaglianze, le esalta. Aumentano gli “scarti”, si frammentano competenze che diventano via via più sofisticate e settoriali. Chi non regge il passo è messo fuori.
Peraltro, nell’arco temporale di una carriera lavorativa, la tipologia della prestazione o della mansione muta secondo ritmi talvolta imponderabili. Occupazione e produttività, mantenimento del posto di lavoro e formazione permanente si intrecciano in modo inedito.
In buona sostanza, aleggia sul sistema complessivamente inteso ed in capo ad ognuno, soprattutto in determinati settori, una condizione di precarietà che oggi rappresenta un elemento costitutivo, difficilmente espugnabile del quadro civile in cui viviamo. Anzitutto, tra le altre “transizioni”, paradigmatiche del’ evoluzione sociale in corso, se ne impone un’ altra fin qui poco considerata.
Quella che dovremmo chiamare “transizione educativa”, un processo multiforme, vasto e complesso di cui va affermato un primo tratto essenziale: la necessità di privilegiare il momento prettamente “educativo”, la cultura di base cui ognuno può e deve aspirare, rispetto al momento formativo o di puro e semplice apprendimento di una mansione.
“Precarietà”, poi, significa inquietudine, carenza di un orizzonte certo e, dunque, della possibilità di costruire un progetto attendibile per la propria vita. Si tratta, insomma, di una condizione pervasiva che crea una sorta di bradisismo che, nella vita delle persone, può avere effetti a largo raggio. Può, ad esempio, rappresentare una spina irritativa che slatentizza condizioni di sofferenza psicologica ancora relativamente compensate oppure rivela quelle diffuse fragilità affettive che pesano sulla vita e sulla stabilità di tante famiglie.
Questo disagio sociale, più o meno minaccioso, spesso “esistenziale”, cioè capace di minare e compromettere il vissuto di ciascuno, può essere lasciato in capo al singolo lavoratore, abbandonato all’ alea di un destino incerto cui la collettività, tutt’ al più, offre l’ accesso ai servizi sociale delle istituzioni locali La precarietà non va, al contrario, riconosciuta come una condizione strutturale del nostro contesto civile e, dunque, presa in carico in chiave sistemica, piuttosto che sparpagliandola sulle spalle dei singoli malcapitati?
In quest’ ottica, il “salario minimo” non diventa forse un argine di rassicurazione che può concorrere a risanare almeno le punte estreme di inaccettabili divaricazioni sociali? Ed il “reddito di cittadinanza” – al netto di tutte le malversazioni che l’hanno affondato – o chi per esso, cioè provvedimenti analoghi meglio studiati e correttamente applicati – che non siano la vergognosa “mancia alimentare” del governo Meloni – soprattutto nelle famiglie dov’è posta in gioco la “povertà educativa” di bambini ed adolescenti, non è forse un necessario presidio di coesione sociale e di civiltà? Ovviamente sviluppando, nel contempo, serie ed efficaci politiche attive del lavoro.
Se assistessimo impotenti ad un ulteriore incremento delle diseguaglianze ed alla conseguente compromissione di un titolo di cittadinanza uguale per tutti, lo sviluppo delle stesse società più sviluppate si ritorcerebbe su di sé, negando ogni possibile incremento della crescita attesa.
Al contrario, il recupero di “coesione sociale” è la garanzia previa per ll nostro domani.