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INSIEME PER IL LAVORO – di Anna Maria Pitzolu

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Il tema del lavoro è molto complesso per essere trattato in tempi così stretti, oltre che strettamente correlato alla politica di sviluppo economico.

In questa breve sintesi mi limiterò ad esporre i maggiori elementi di criticità ed alcune proposte per superarli.

Vorrei ricordare preliminarmente la centralità che riveste il lavoro nella nostra Costituzione. Già il primo articolo afferma che “L’Italia è una repubblica fondata sul lavoro”, mentre nel successivo articolo 4 si riconosce il diritto al lavoro come strumento di affermazione e sviluppo della persona umana, l’obbligo per lo Stato di creare le condizioni che lo rendano effettivo e la sua funzione sociale, quale attività che concorre al progresso materiale o spirituale della società.

E’ altresì rimasto inapplicato l’art. 46 Cost. sulla partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa, che pure avrebbe consentito un superamento delle situazioni conflittuali in favore di una maggiore compartecipazione e corresponsabilità dei lavoratori alle scelte strategiche e organizzative dell’impresa in cui sono impiegati.

I valori espressi nella Costituzione devono essere riaffermati con forza in un sistema economico, come quello attuale, in cui il lavoro è considerato solo come uno dei fattori della produzione di imprese volte unicamente al raggiungimento del massimo profitto per il capitale e per la sua alta dirigenza, senza alcuna cura per gli effetti socio-economici che ne conseguono, sulla base di una visione assai lontana da quella olivettiana.

Appare improcrastinabile, dunque, una rivoluzione culturale tesa a reimpostare un sistema incentrato sulla diretta tutela della persona, dando rinnovato vigore alla portata pretensiva dei diritti costituzionali alla dignità ed effettiva libertà della persona umana.

 Fatte queste necessarie premesse, dobbiamo rilevare che tre sono i limiti strutturali delle politiche del lavoro in Italia:

In trent’anni in Italia, unico Paese tra le economie avanzate degli anni ’90, i salari reali medi sono calati del 2,9%, mentre in Francia ed in Germania sono saliti del 30% e negli USA addirittura del 50%.

Salari e produttività sono crollati soprattutto dopo il 2008. La situazione rischia di peggiorare per effetto delle spinte inflazionistiche in corso.

Le ragioni della riduzione della produttività, secondo l’OCSE, sono da ravvisare soprattutto nel forte aumento dei contratti a tempo ridotto (comune ad altri Paesi, a causa del trasferimento della occupazione dal settore industriale a quello dei servizi, spesso caratterizzati da stagionalità) e nella mancata redistribuzione degli aumenti di produttività, già contenuti e incamerati in larga parte dallo Stato con l’aumento della pressione fiscale e dei contributi sociali.

Nei Paesi sviluppati, infatti, il ruolo trainante e compensativo della perdita di occupazione nel settore manifatturiero è stato svolto da alcuni comparti dei servizi (manutenzione, logistica, ristorazione, turismo, servizi alla persona) e dall’agricoltura.

Nel nostro Paese, secondo uno studio dell’Università di Oxford, la crescita di questi comparti è stata caratterizzata da un livello decrescente della quota degli investimenti in tecnologia e capitale umano e da una redditività generata dalla compressione dei costi del lavoro, anche mediante il ricorso a rapporti flessibili, in parte legati alla stagionalità della domanda.

I posti di lavoro che si sono creati nel settore dei servizi sono stati oggetto di forti polemiche in relazione alla qualità del lavoro ed alle remunerazioni, fattori i quali hanno determinato la carenza di manodopera ed il ricorso allo sfruttamento di immigrati o al lavoro sommerso, spesso alimentato proprio da coloro che beneficiano di prestazioni assistenziali.

Un elemento decisivo dell’arretratezza di molti comparti è riconducibile alle mancate riforme del welfare, che hanno penalizzato i settori della sanità, dell’istruzione, dell’assistenza, dei servizi alle famiglie, delle politiche attive del lavoro.

In questo quadro, l’aumento delle prestazioni assistenziali, che incide altresì sulla pressione fiscale a danno della parte produttiva del Paese, si rivela del tutto inefficace per la risoluzione dei problemi.

Né sembra idoneo a contrastare questo circolo vizioso lo strumento, oggetto di discussione anche a livello comunitario, del salario minimo garantito (nella misura del 60% del salario medio di ogni Paese aderente all’UE), soprattutto ove si consideri che l’Italia supera di gran lunga il grado di tutela assicurato dai contratti collettivi che la direttiva si pone come obiettivo.

Per superare i limiti strutturali sopra evidenziati occorre realizzare una completa trasformazione degli strumenti di sostegno che consenta di raccordare la formazione con i fabbisogni delle imprese e con le liste di coloro che beneficiano di sostegni al reddito o in cerca di occupazione, veicolando le risorse disponibili per la realizzazione di politiche attive del lavoro effettive ed efficaci, mirate all’inclusione sociale delle categorie disagiate (giovani, donne, disabili, disoccupati di lunga durata).

Per quanto riguarda la domanda di figure professionali qualificate non reperibili sul mercato, è necessario creare un sistema istituzionale innovativo in grado di stabilire relazioni permanenti e di coordinare amministrazioni, imprese, operatori pubblici e privati nella formazione e parti sociali, trasformando i processi di orientamento e di formazione; per i profili che non necessitano di percorsi di formazione intensi, le competenze potrebbero essere adeguate con percorsi di apprendistato o di formazione in ambito aziendale. In entrambi i casi, risultano inadeguate le azioni politiche messe in campo per superare il problema, come l’assunzione di 11.000 dipendenti per i Centri per l’impiego, in difetto di una radicale trasformazione dell’approccio ai problemi, come sopra suggerito, senza inutili burocratizzazioni.

Il superamento della crisi del Paese deve passare attraverso forti investimenti nella ricerca e nell’innovazione tecnologica. Una particolare attenzione deve essere data alla formazione permanente dei lavorati già occupati che essa impone, superando le perplessità di matrice luddista. L’innovazione tecnologica non riduce ex se i posti di lavoro, ma impone una formazione e riqualificazione dei lavoratori in tempi brevi; non relega il lavoro ad una funzione ancillare, ma richiede al lavoratore un salto di qualità per continuare ad essere il protagonista; non annulla il valore delle competenze acquisite, ma le utilizza per la gestione di processi produttivi complessi, di interazione con macchine e sistemi.

E’ dunque indispensabile investire non solo sulla formazione dei giovani o delle persone in cerca di occupazione, ma anche sulla riqualificazione dei lavoratori già presenti in azienda, per evitare che all’innovazione tecnologica consegua una nuova forma di disuguaglianza sociale, conseguente alla disuguaglianza digitale.

Per favorire questa trasformazione dovrebbero, a nostro sommesso avviso, essere attuati i seguenti interventi:

Desidero ringraziare tutti coloro che hanno apportato i loro contribuiti per la redazione del programma di INSIEME in materia di politica industriale e del lavoro e, in particolare, Natale Forlani, Daniele Ciravegna, Vera Negri Zamagni, Gabriele Falciasecca e Roberto Pertile, nonché Franco Lucchese, prematuramente scomparso qualche giorno fa.

Anna Maria Pitzolu

 

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