L’Italia è un Paese molto variegato, nel territorio e nelle culture. Ma dove il senso di appartenenza alla comunità locale è sentito ovunque allo stesso modo. Ed è in questo sentimento comune che va ricercata la coesione sociale, dalle comunità locali all’intera nazione, grazie a un armonico ed efficiente sistema di Autonomie locali a fondamento della Repubblica.
Nella nostra visione sono loro, le Autonomie Locali, il perno di uno Stato democratico. In anni recenti si è tanto parlato di una loro riforma, arrivando anche a proporre modifiche costituzionali. Noi pensiamo invece che la grande riforma degli Enti locali consista semplicemente nell’attuare la Costituzione e l’ordinamento che prevede il suo Titolo V, dove è scritto che la Repubblica è costituita “dai Comuni, dalle Province, dalle Città metropolitane, dalle Regioni e dallo Stato”, prevedendo un’armonica collaborazione ispirata al principio di sussidiarietà. Questa struttura delle Autonomie locali è valida e non richiede stravolgimenti. Bisogna intervenire sul loro sistema di finanziamento e spesa affinché diventi coerente con la Costituzione, con un’impostazione federalista ispirata dal principio di responsabilità fiscale.
Il Comune compare per primo, in quanto fondamento della società organizzata. Il Comune (il Municipio, avrebbe detto Luigi Sturzo) è il primo nucleo della comunità civile, il più vicino all’individuo e alla famiglia, l’altro nucleo primordiale della società. Il Comune, in particolare un piccolo Comune, rende vicino il potere ai cittadini, li coinvolge nelle scelte, valorizza il senso civico. È la cellula fondamentale dello Stato, con il potere di governare la prossimità. Nel nostro Paese esistono oltre 8000 Comuni, e molti di questi sono piccoli o piccolissimi, specie in
alcune Regioni. Da un lato bisogna mantenere il ruolo etico e sociale della municipalità, dall’altro occorre sostenere le Unioni tra Comuni nell’erogazione dei servizi ai cittadini, per garantire anche nei luoghi più periferici e sperduti accettabili livelli di vita garantiti dall’ente di governo di prossimità.
Per problemi che interessano l’area vasta, dove il singolo Comune non può risolvere da solo, allora – secondo il principio di sussidiarietà che prevede di assegnare al livello organizzativo più vicino al cittadino tutte le competenze che tale livello è in grado di svolgere adeguatamente – a salire avremo i Comuni associati in Unioni, poi la Provincia o la Città Metropolitana. Un Ente di governo dell’area vasta, legittimato dal voto popolare, deve esistere, come avviene nella quasi totalità degli Stati avanzati. Non lo è la Regione che ha un ruolo legislativo – nell’ambito delle competenze previste dalla Costituzione – di programmazione, finanziamento e controllo, e non deve assumere
compiti amministrativi e gestionali.
La Provincia o la Città metropolitana (in certi casi più correttamente definibile “Provincia metropolitana”) è necessario Ente di governo delle tematiche di area vasta: gestione dei rifiuti, dell’ambiente, delle acque, dei trasporti, della rete viaria intercomunale, delle infrastrutture, delle reti informatiche, del mercato del lavoro, delle scuole superiori e professionali, dello sviluppo locale, ecc.
Sono tutte problematiche che possono venire efficacemente gestite solo in un ambito territoriale ampio e omogeneo. Non se ne possono occupare i Comuni, troppo piccoli, non se ne devono occupare le Regioni, che hanno un altro compito e che rischiano di essere ipertrofiche e “ministeriali” sommando al proprio ruolo anche funzioni gestionali.
Un Ente che governa i temi di area vasta, intermedio tra la comunità locale, sia essa un paesino o una città, e la grande Regione esiste in tutti i Paesi sviluppati. Ad esempio, in Francia c’è il Département, in Spagna la Diputacion, nel Regno Unito e negli Stati Uniti la Contea (County), in Germania il Kreise, in Polonia il Distretto (Powiaty). In Italia le Province vennero istituite nel lontano 1859 e rimangono ancora oggi un Ente costituzionale.
Il sistema delle Autonomie deve comunque avere dei correttivi, tesi a diminuirne i costi e aumentarne l’efficienza. Ma in linea con la Costituzione e con le linee coerenti tracciate nel tempo delle successive leggi in materia di Enti locali. Definiamo i seguenti punti:
1. Le Regioni – con il loro ruolo legislativo, di programmazione e controllo – hanno mantenuto e persino aumentato negli ultimi anni competenze gestionali per loro improprie, diventando ancor più ipertrofiche. Un equilibrato sistema delle Autonomie locali rifugge sia il centralismo statale sia il neocentralismo regionale. Le Regioni devono quindi “dimagrire” girando coerentemente alle Province molte sacche residue di gestione amministrativa, evitando anche inutili sovrapposizioni di competenze.
2. Riportando le Regioni al loro compito costituzionale e attuando una più forte autonomia attraverso il principio della responsabilità fiscale, perdono di significato le Regioni a Statuto speciale (almeno quelle non collegate a trattati internazionali) che nel corso dei decenni hanno già visto venir meno in gran parte le ragioni della loro diversità. Tutte le Regioni devono avere ampia autonomia nel rispetto delle norme costituzionali, nessuna deve avere privilegi rispetto alle altre. Forme di “autonomia regionale differenziata” non hanno ragione di essere in un sistema di
Autonomie che ha a cuore l’unità del Paese e l’omogeneità di servizi per il cittadino, le famiglie, le imprese in tutto il territorio nazionale.
3. Le Province hanno senso e ruolo come Enti di area vasta. Occorre prevedere parametri di territorio, popolazione e numero di Comuni (ad esempio, almeno un centesimo della superficie, della popolazione e dei Comuni italiani) che portino all’accorpamento di Province oggi esistenti tra loro per una più omogenea copertura territoriale e una maggiore efficienza. Ogni Provincia potrà organizzare la propria presenza e attività sulla base di aree omogenee, rappresentate dai Sindaci dei Comuni interessati, che potrebbero riprendere la breve ma significativa esperienza dei Comprensori. Un vasto Ente territoriale con importanti compiti di governo, richiede il controllo democratico dei
cittadini con l’elezione diretta degli amministratori ad ogni quinquennio.
4. Un forte Ente di governo dell’area vasta rende inutili tanti Enti intermedi monofunzionali – circa 8000 in tutta Italia – come le ATO per acque o rifiuti o altri Consorzi variamente finalizzati, spesso inutili e con i conti in rosso. L’abolizione della maggior parte di tali Enti da un lato rafforzerà il ruolo delle Province e dall’altro produrrà un importante risparmio sui costi della politica, in aggiunta allo snellimento della struttura regionale e alla diminuzione del numero delle Province.
5. Se la municipalità è una ricchezza da preservare, occorre tuttavia superare le difficoltà delle piccole realtà – specie nelle aree più periferiche, di montagna e collina – nel rispondere ai bisogni dei cittadini favorendo l’associazionismo tra Comuni per rafforzare i vari servizi (amministrativi, tecnici, scolastici, assistenziali).
Il risparmio sui costi della politica e della pubblica amministrazione riferito agli Enti locali, da tutti auspicato, avverrebbe quindi – il linea con i dettami costituzionali – con lo snellimento della struttura regionale, con un rafforzamento funzionale delle Province unito alla diminuzione del loro numero, con la soppressione degli Enti intermedi monofunzionali e con il necessario sviluppo delle Unioni tra Comuni.
Ma nel sistema che abbiamo delineato deriverà un ben maggiore risparmio dalla riorganizzazione territoriale dello Stato sulle Province ridotte di numero. Passare da 110 ambiti territoriali a una sessantina comporterà una importante riduzione degli uffici periferici dello Stato (Prefetture, Questure, Camere di Commercio, Motorizzazione e altri Uffici strutturati su base provinciale) determinando certamente minori costi e maggiore efficienza.
Alessandro Risso