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Ipotesi di programma per infrastrutture e trasporti – di Pasquale Cialdini

  1. Premessa:

 Il ruolo delle infrastrutture di trasporto

Prima di illustrare le proposte per un programma di governo nel settore trasporti e infrastrutture è necessaria una piccola premessa che ci aiuti a riscoprire il ruolo fondamentale che le infrastrutture di trasporto hanno avuto nel passato e possono svolgere ancora oggi per lo sviluppo economico e sociale del nostro Paese. Purtroppo questo ruolo da alcuni decenni è stato offuscato, a causa di scelte politiche sbagliate, che hanno privilegiato la costruzione di nuove “grandi opere” prive però di un’adeguata programmazione e di una corretta progettazione, che ha favorito una dilagante corruzione anche con infiltrazioni di natura mafiosa che hanno allungato i tempi di realizzazione delle opere e ne hanno accresciuto i costi. A questo si deve anche aggiungere che le vecchie infrastrutture sono state spesso gestite male, ovvero sono state “maltenute” e non “mantenute” (che deriva dal latino: manu tenere, tenere con mano) con gli effetti catastrofici che tutti conosciamo. Di conseguenza, l’immagine che ora abbiamo delle infrastrutture è fortemente distorta. Prima di parlare della gestione delle infrastrutture di trasporto esistenti o della costruzione di nuove infrastrutture è necessario, quindi, fare qualche passo indietro e cercare di riscoprire il ruolo che esse devono svolgere al fine di contribuire  allo sviluppo economico e sociale del territorio dove sono ubicate.

Molti studi teorici ed empirici, hanno sottolineano la relazione che intercorre tra le potenzialità di sviluppo economico e sociale di un’area geografica e il volume delle infrastrutture di trasporto di cui essa dispone. Un soddisfacente livello di dotazione infrastrutturale del territorio genera infatti una serie di vantaggi economici diretti e indiretti, sotto forma di maggiore produttività e di maggiore efficienza del settore industriale, che nel complesso accrescono la capacità competitiva di un Paese sul mercato globale. Le reti infrastrutturali, come è ben noto e, come confermano dati di fatti e teorie economiche, fungono da motore per la crescita economica, sociale e culturale di un paese. Permettono infatti la soddisfazione di bisogni umani fondamentali, quali il mantenimento di moderni standard di vita, lo sviluppo di attività produttive e la creazione di ricchezza, la comunicazione, la mobilità e lo scambio di persone, merci e dati.

Risalta invece agli occhi di tutti l’inadeguatezza della dotazione infrastrutturale del nostro paese, soprattutto nel trasporto, dove strozzature e anelli mancanti producono diseconomie, impediscono recuperi di produttività, ostacolano la creazione di nuova occupazione; in sintesi, bloccano le prospettive di sviluppo. Nel trasporto, più che in altre attività, il tempo è denaro. Ed è denaro di tutti perché il tempo che si perde in coda per entrare in città o per l’imbarco, in dogana, in attesa di un carico, ai valichi o per attraversare un tunnel è un costo elevato che si riverbera non solo sui prezzi del trasporto e quindi sui prezzi dei prodotti, ma anche sulla produttività di chi si sposta e sull’ambiente. Le infrastrutture, in particolare quelle di trasporto e di comunicazione, generano economie esterne per le imprese, traducendosi facilmente e quasi automaticamente in risparmi di costi e di tempi. Gli investimenti in infrastrutture di trasporto, inoltre, hanno un impatto di rilievo sull’economia in termini di sostegno ciclico (incremento di Pil ed occupazione) e di aumenti di produttività e competitività, funzionali all’innalzamento del tasso di sviluppo potenziale del paese.

La transitabilità del territorio e delle frontiere non è solo vitale per la competitività della nostra industria, è anche un importante fattore di attrazione di investimenti stranieri e di flussi turistici.

Il nostro paese per l’eccezionale dotazione di beni culturali e ambientali, gode di un vantaggio inimitabile. Il turismo è un comparto centrale per l’economia, dato che non solo porta flussi di denaro dall’estero, ma crea posti di lavoro e permette una promozione “gratuita” del made in Italy. Tuttavia c’è bisogno di iniziativa per questo settore, che resta ancora ampiamente sotto utilizzato: non bastano le bellezze naturali: perché queste siano pienamente fruibili, è necessario che siano accessibili in tempi ragionevoli. Invece le carenze del sistema dei trasporti rendono difficile e costosa l’accessibilità in molte mete italiane, soprattutto al Sud. Non dimentichiamo che il turismo costituisce una forte leva per lo sviluppo, in quanto in grado di alimentare un circolo virtuoso capace di sostenere e incrementare i livelli di occupazione e delle attività produttive collegate, sia nel settore commerciale che in quello industriale. Per il Mezzogiorno, in particolare, il grande potenziale di capacità di attrazione turistica rappresenta un’occasione unica di rilancio economico e sociale. Per i dati sulle infrastrutture ferroviarie e stradali, si rimanda all’Appendice n.1, dove:

– nelle tabelle (A, B, C, D, E), è riportato lo sviluppo delle reti ferroviaria e stradale nell’ottocento;

– nella tabella F) è riportata la suddivisione della rete ferroviaria italiana tra le diverse regioni italiane;

– nella tabella G) è riportatala dotazione di infrastrutture terrestri in rapporto con la popolazione.

 Il deficit infrastrutturale dell’Italia

L’Italia ha accumulato negli anni un forte gap infrastrutturale e gestionale nel sistema dei trasporti, connesso al mancato adeguamento dell’offerta alla crescita della domanda. Nel nostro paese, all’interno degli investimenti in costruzioni, la quota dedicata agli investimenti infrastrutturali si attesta all’1,5% rispetto ad una media europea del 2,7%. Tutto ciò spiega perché il divario infrastrutturale tra l’Italia e gli altri Paesi continua a crescere di anno in anno.

Il caso della rete autostradale è emblematico: l’Italia, all’inizio degli anni ’70 era leader in Europa per quanto riguarda le autostrade, seconda sola alla Germania e con una dotazione due volte superiore a quella francese ed addirittura dieci volte maggiore di quella spagnola. Ma dopo la metà degli anni ’70, più precisamente dopo l’emanazione della legge n.492/1975, che vietava la costruzione nel nostro paese di nuove autostrade, la situazione è completamente mutata. Effettuando oggi lo stesso confronto fatto agli inizi degli anni ‘70, i risultati sono completamente ribaltati, perché mentre in altri paesi sono stati realizzati consistenti programmi infrastrutturali, in Italia le nuove opere autostradali sono state bloccate; nello stesso periodo, mentre l’estensione della rete autostradale è rimasta pressoché immutata, il traffico è più che triplicato (15 milioni di veicoli a motore nel 1970, 55 milioni nel 2019). L’Italia detiene il più alto rapporto del mondo veicoli a motore/abitanti pari a 0,9, mentre negli altri Paesi Europei e negli Stati Uniti non si supera lo 0,8. Inoltre, negli anni settanta, proprio quando si è interrotta la costruzione delle autostrade è stata aumentato il peso massimo dei veicoli ammessi a circolare portandolo da 32 t a 44 t (record europeo ancora oggi imbattuto). Nel 1985 la Comunità Europea ha emanato la prima direttiva n. 85/3 CE “Pesi e dimensioni di veicoli”, stabilendo come peso massimo 40 t. All’Italia fu concesso mantenere le 44 t, però, con l’obbligo di consentire anche ai veicoli stranieri di entrare in territorio italiano senza pagare un indennizzo per la maggiore usura[1]. Queste sono le cause perché oggi la rete italiana risulta di gran lunga la più carente, avendo accumulato, negli ultimi 50 anni, un grave gap: dall’offerta autostradale italiana emerge un deficit del 63% rispetto alla media europea di km per milione di abitanti e dell’88% rispetto alla densità veicolare che, al contrario della rete stradale, è cresciuta in modo vertiginoso. Anche la rete delle strade statali, regionali e provinciali è rimasta pressoché la stessa, negli ultimi 50 anni, mentre il numero degli autoveicoli, come abbiamo già visto,  è cresciuto a dismisura.

La rete stradale non è solo inadeguata alla domanda e tutti ce ne accorgiamo nelle lunghe code che si formano sia in ambito urbano che extraurbano, ma presenta anche gravi carenze manutentive sia nella pavimentazione che nelle strutture delle opere d’arte (ponti, viadotti e gallerie). Inoltre, essendo stata prevalentemente costruita prima degli anni settanta del secolo scorso, non è adeguata alle normative sismiche che si sono succedute a partire dal tragico terremoto dell’Irpinia. Negli ultimi anni la situazione si è aggravata perché, a causa delle ristrettezze di bilancio, molte amministrazioni regionali e locali hanno rinviato gli interventi di manutenzione, lasciando comunque le strade aperte al traffico, pertanto, molti interventi che prima potevano rientrare nella “manutenzione ordinaria”, ora sono diventati di “manutenzione straordinaria” con un notevole aggravio dei costi. L’ANAS, nell’ultimo triennio ha, per la prima volta, previsto nel proprio bilancio una cifra per la manutenzione più elevata di quella destinata alle nuove opere, ma ovviamente, per recuperare il gap accumulato negli anni scorsi, avrà bisogno negli anni futuri di maggiori finanziamenti da parte dello Stato. Purtroppo anche i concessionari delle autostrade, come tutti, purtroppo, hanno avuto modo di constatare hanno trascurato la manutenzione con effetti disastrosi. Tutto ciò dovrà essere tenuto in debita considerazione nella redazione del prossimo programma di governo sia per prevedere gli stanziamenti per le strade statali, sia per contribuire alle spese degli enti locali e delle regioni da destinare alla manutenzione. Ovviamente per quanto riguarda i concessionari delle autostrade servirà, invece, una maggiore vigilanza sui loro bilanci e provvedere ad una revisione delle concessioni che preveda specifiche penali ed anche la revoca in caso di gravi inadempienze manutentive.

Da ultimo, ma non ultimo per importanza, un’attenzione particolare meritano le analisi sugli incidenti stradali. Non può essere sufficiente, come è spesso accaduto, limitarsi a guardare le statistiche che, sulla base dei rilievi della polizia stradale, attribuiscono prevalentemente al fattore umano la causa degli incidenti (oltre il 90%). Fin dalla prima Relazione sulla sicurezza stradale, trasmessa al Parlamento nel 1998, è stato dimostrato, analizzando anche le “concause” degli incidenti, che anche “la strada” ha enormi responsabilità che aggravano molto spesso gli incidenti. Nella Relazione, sulla base dei dati sulla “localizzazione degli incidenti stradali”[2] sono stati individuati alcuni tratti stradali che rappresentano solo il 15% della rete ma dove si verificano costantemente oltre il 45% dei morti.  Non basta, quindi, aumentare solo i controlli di polizia e le sanzioni per le infrazioni più gravi, ma si deve anche intervenire nei tratti stradali più a rischio (“punti neri”).  La situazione è particolarmente grave anche nelle città che, oltre ad essere particolarmente congestionate dal traffico veicolare per l’inadeguatezza del trasporto pubblico locale (TPL) e per la scarsissima dotazione di linee metropolitane, presentano un’elevata percentuale di incidentalità (75%) e di mortalità (42%) rispetto al totale. Molti Paesi Europei, negli ultimi venti anni sono intervenuti anche in questo settore ed hanno migliorato di molto la sicurezza delle loro strade con riduzioni dell’incidentalità stradale più consistenti di quelle registrate in Italia[3].  Per comprendere la gravità del problema è opportuno anche ricordare che le statistiche sanitarie dell’OMS dimostrano che nella classe di età compresa tra i 14 ed i 40 anni gli incidenti stradali costituiscono la prima causa di morte ed è una “pandemia” di cui molto poco si parla e per la quale non è ancora stato trovato un “vaccino”.  Inoltre l’incidentalità stradale rappresenta anche un “costo sociale” che è stato valutato per il 2019 in 33,8 miliardi di Euro, ovvero l’1,9% del PIL[4].

Anche la rete ferroviaria italiana mostra un gap importante rispetto ai principali paesi dell’UE. Confrontando l’estensione delle reti alla superficie del paese, l’Italia risulta avere un indicatore di dotazione di linee ferroviarie pari alla metà di quello tedesco ed al 70% di quello francese ed inferiore anche al Regno Unito[5].Tutto ciò comporta per il nostro sistema-paese diversi effetti negativi, fra cui:

squilibri nella ripartizione modale del traffico; insufficiente integrazione fra modi di trasporto; ridotta connessione con la rete europea; mancata valorizzazione del Mezzogiorno.

Le regioni del mezzogiorno soffrono anche di una dotazione infrastrutturale, soprattutto nel settore ferroviario, ancora più carente rispetto alle regioni centro-settentrionali. Il divario nella dotazione complessiva di reti ferroviarie del Mezzogiorno è rilevante rispetto al Centro-Nord, non solo per la ridotta diffusione della rete AV, ma anche per altre carenze qualitative delle reti ordinarie. Le strutture di intermodalità ferroviaria di RFI sono praticamente inesistenti nel Mezzogiorno, mentre estremamente modesta è la presenza di interporti e di centri intermodali[6].

Nel Mezzogiorno, dai primi anni ‘90, il calo della spesa per investimenti in opere pubbliche è stato continuo e si è ulteriormente accentuato negli ultimi anni. Il declino della spesa infrastrutturale è dimostrato dal tasso medio annuo di variazione nel periodo 1970-2019, pari a -1,9% a livello nazionale, ma con un calo del  – 4,5% nel Mezzogiorno, a fronte di appena il – 0,8% nel Centro-Nord.

Nel ranking regionale europeo (composto da 263 regioni), la regione del Mezzogiorno più competitiva è la Campania, ma posizionata quasi a metà graduatoria (100° su 263), seguita da Puglia (143°), Calabria (175°), Sicilia (161°), Abruzzo (176°), Sardegna (203°), Basilicata (234°) e Molise (245°). Ma anche le regioni italiane più competitive sono su posizioni di retroguardia, come Lazio (50°), Piemonte (54°), Liguria (76°), Lombardia (79°), Veneto (106°) e Emilia-Romagna (121°).

Per avere un’idea più precisa del ritardo accumulato dall’Italia nel settore “trasporti” si rimanda alle tabelle riportate in appendice n.2  che sono state prese dal sito ufficiale dell’Unione Europea. Dalle tabelle risulta la posizione italiana in materia di “Efficienza dei servizi di trasporto” (ferroviari, stradali, portuali ed aeroportuali) che varia tra il 18° ed il 20° posto tra i 28 Paesi membri (sic!).

In uno studio dell’OCSE del 2005 (e la situazione ad oggi non è cambiata), l’Italia è collocata agli ultimi posti fra i principali Paesi europei per quanto concerne la qualità del complesso delle infrastrutture, l’efficienza delle reti di trasporto, la disponibilità di impianti energetici e lo sviluppo dei sistemi logistici. L’Italia presenta un livello di infrastrutturazione del territorio di gran lunga inferiore a quello di Regno Unito, Germania e Francia ed ora anche dalla Spagna e soprattutto l’Italia è gravata da un persistente squilibrio in favore del trasporto stradale. Per ogni tonnellata di merce su ferrovia in Italia si contano 5,5 t su strada, mentre in Germania 0,5 t, in Francia 1,1t ed in Spagna 4 t.

Tentativi nel passato sono stati compiuti per migliorare la dotazione infrastrutturale in Italia, ma nonostante le “buone intenzioni”, non si è colmato il ritardo italiano rispetto agli altri Paesi Europei. A partire dall’anno 2000, con il Piano Generale dei Trasporti e della Logistica, la situazione poteva finalmente sbloccarsi. Il Piano aveva costituito un punto di svolta per il settore, individuando le criticità ed il fabbisogno infrastrutturale del paese, le linee programmatiche e le opere da realizzare, nonché gli investimenti necessari. Molte speranze erano state poste nella “Legge Obiettivo” che sembrava poter costituire il  punto di svolta per l’ammodernamento delle reti infrastrutturali con la creazione dei presupposti per accelerare la realizzazione dei programmi ed introdurre strumenti innovativi, quali il “project financing”. In linea con le indicazioni della Legge obiettivo, il Programma delle infrastrutture strategiche approvato dal CIPE a fine 2001 ha definito gli interventi prioritari necessari all’adeguamento infrastrutturale del Paese che, nel settore dei trasporti, riguardavano strade ed autostrade, ferrovie, hub portuali e aeroportuali, interporti, piattaforme logistiche, interventi per favorire l’intermodalità. A vent’anni dal Piano Generale dei Trasporti e dall’entrata in vigore della “Legge Obiettivo” si può tracciare un bilancio dei loro effetti. Il Piano ha avuto sicuramente il merito di aver colto pienamente la centralità di una moderna rete di trasporto per lo sviluppo, definendo le linee d’azione e gli interventi da realizzare. Nell’applicazione della Legge Obiettivo, tuttavia, sono stati commessi diversi errori che ne hanno vanificato l’importanza: troppe opere e, non solo nel settore trasporti, sono state definite prioritarie (circa 260 interventi da realizzare in dieci anni), con un divario molto elevato tra fabbisogno finanziario e risorse disponibili, ed inoltre, non tutti i vincoli sono stati rimossi. Si rende necessaria oggi una profonda rivisitazione del Piano dei Trasporti per individuare le priorità più urgenti da realizzare nel breve e nel medio termine in linea con i programmi europei del settore trasporti e logistica.

I programmi dell’Unione Europea nel settore delle infrastrutture di trasporto

Un programma di governo in Italia per i trasporti, non può non tener conto dei programmi di settore dell’Unione Europea che ha da sempre considerato lo sviluppo del settore trasporti[7] come obiettivo fondamentale per la realizzazione del mercato interno europeo.

Il Trattato di Maastricht ha riconosciuto il rilievo decisivo delle “reti transeuropee” (TEN) nei settori dei trasporti, dell’energia e delle comunicazioni.  Gli obiettivi dell’UE nel settore dei trasporti sono:

– creare un sistema di trasporti moderno ed efficiente che favorisca la concorrenza e sia sostenibile dal punto di vista economico, sociale e ambientale;

– favorire la liberalizzazione del trasporto ferroviario;

– armonizzare la legislazione sulla sicurezza dei mezzi e delle infrastrutture di trasporto;

– ridurre l’impatto ambientale dei trasporti stabilendo dei limiti per l’emissione di sostanze inquinanti e di rumore;

– favorire la creazione di nuove ed efficienti vie di comunicazione tra l’UE e i paesi vicini.

Le misure necessarie per rilanciare in modo strutturale la crescita in Europa sono state definite con chiarezza fin dal Libro Bianco di Delors del 1993, che ha in larga misura anticipato le decisioni prese successivamente nel 2000 a Lisbona. Delors ha paragonato il ruolo delle infrastrutture nei territori dell’UE come quello del sistema arterioso e venoso nel corpo umano ed in particolare ha segnalato che la carenza di infrastrutture in un’area geografica è da considerarsi alla stregua della “cancrena” che si produce in una zona del corpo in caso di un’occlusione di una o più vene che ne impedisce il libero flusso del sangue.

Dopo l’avvio dell’Unione monetaria, nel marzo 2000 il Consiglio europeo ha definito a Lisbona una strategia, meglio conosciuta come la “Strategia di Lisbona”, per realizzare una crescita economica sostenibile che accrescesse l’occupazione e consentisse una maggiore coesione sociale. La Commissione Europea ha pubblicato nel 2001 il Libro Bianco “La politica europea dei trasporti fino al 2010”, che conteneva le misure da adottare per perseguire una politica comune e sostenibile dei trasporti, mirata al riequilibrio dei modi, alla sicurezza della circolazione e al decongestionamento dei grandi assi. Un pilastro del Libro Bianco è rappresentato dal rafforzamento delle reti transeuropee nel settore dei trasporti e dell’energia. E, in effetti, negli anni seguenti, dopo aver definito un piano per l’alta velocità nel trasporto ferroviario, sono stati approvati tre piani riguardanti i trasporti combinati, le strade e le vie navigabili; in occasione dell’ingresso dei Paesi dell’Est nell’U.E., sono stati poi concepiti altri tre piani orientativi, che riguardano rispettivamente l’infrastruttura ferroviaria classica, l’infrastruttura aeroportuale e l’infrastruttura portuale.

Per quanto riguarda il finanziamento, il Libro Bianco si basa su tre principi di fondo:

– l’equilibrio finanziario deve essere garantito nella misura più ampia possibile dal contributo di investitori privati;

– gli interventi finanziari degli Stati membri devono essere compatibili con i vincoli di finanza pubblica previsti dal Trattato di Maastricht;

– il livello europeo può intervenire per sostenere gli sforzi finanziari degli Stati membri e per favorire la mobilitazione del capitale privato[8].

Tra i principali obiettivi da perseguire, il Libro Bianco ha indicato l’ampliamento ed il miglioramento delle infrastrutture di trasporto, dove sono stati individuati 30 progetti prioritari:

L’Italia è ben rappresentata nelle mappe delle reti TEN di Trasporto e nei 30 progetti prioritari:

– il Corridoio ferroviario n.1Berlino-Palermo”, comprende il progetto del tunnel del Brennero[9];

– il Corridoio ferroviario n. 5  “Lisbona-Kiev”, comprende l’Alta Capacità Torino-Lione e poi attraversa tutta la pianura  padana. (La Torino Lione tutti la conoscono come TAV, ha invece le caratteristiche e svolgerà le funzioni di TAC (cioè ad Alta Capacità con transito soprattutto di treni merci e non ad Alta Velocità destinata, invece solo ai viaggiatori);

– il terzo grande asse ferroviario che connette il porto di Genova con quello di Rotterdam;

Inoltre, per i porti italiani si prevedeva che potessero utilizzare lo sviluppo due “autostrade del mare” quella dell’area occidentale e quella dell’area orientale del Mediterraneo.

I vincoli di finanza pubblica hanno però inciso, in misura significativa, sulla possibilità di portare a compimento le riforme strutturali di cui l’Europa ha urgente bisogno, provocando dei ritardi enormi nella realizzazione dei progetti europei, non solo in Italia, ma anche in altri Paesi. Occorre riconoscere che nella fase congiunturale di moderata, e prolungata, stagnazione che ha caratterizzato negli ultimi anni l’economia europea, gli obiettivi fissati a Lisbona non sono stati raggiunti, come era stato già preannunciato, dal “Rapporto Kok”[10], fin dal novembre 2004. Già da allora molti parlamentari europei[11] giudicarono “troppo ottimistici” gli obiettivi dell’agenda di Lisbona soprattutto a causa del fatto che “i Capi di governo europei, dopo aver sottoscritto gli accordi nei vertici UE, non sono riusciti ad adottare le misure necessarie in casa loro”. Di conseguenza,  i numerosi progetti, che sulla carta erano stati definiti, in realtà si sono tradotti in un numero molto limitato di realizzazioni.

I Programmi TEN-T, TEN-E e Marco Polo (ovvero quelli concernenti le Reti Transeuropee dei Trasporti, dell’Energia e delle Telecomunicazioni, inseriti nel programma 2007-2013), sono state sostituiti nel periodo 2014-2020 dai programmi CEF[12] al fine di sostenere progetti infrastrutturali di interesse comune nei settori dei trasporti, dell’energia e delle telecomunicazioni. La politica del CEF nel settore trasporti  è quella di sostenere lo sviluppo, la costruzione delle infrastrutture, dando la priorità ai collegamenti mancanti ed ai progetti che presentano un valore aggiunto o particolare rilevanza a livello europeo e vantaggi significativi per la società e che non ricevano un finanziamento adeguato dal mercato. La natura strategica e la destinazione dei finanziamenti, per lo più destinati a grandi progetti di infrastrutture, giustificano l’alta allocazione finanziaria che è stata destinata nel periodo 2014-2020 al CEF, pari a 33 miliardi di Euro.  Le azioni promosse dal CEF si integrano in modo complementare con alcuni degli interventi finanziati dai Fondi strutturali: Fondo di Coesione e FESR (Fondo Europeo di sviluppo regionale). Una parte della disponibilità finanziaria destinata al CEF-Trasporti proviene da una ricollocazione dei Fondi Strutturali. Molte delle attività specifiche finanziate nell’ambito del programma CEF sono identificate “a monte” come strategiche dalle Autorità competenti dell’UE: è il caso, ad esempio, dei progetti che realizzano la rete trans europea dei trasporti (TEN-T).

Le priorità d’intervento nell’ambito del settore Trasporti riguardano le infrastrutture in grado di:

– Eliminare le strozzature, accrescere l’interoperabilità ferroviaria, realizzare i collegamenti mancanti e migliorare le tratte transfrontaliere;

– garantire nel lungo periodo sistemi di trasporto sostenibili ed efficienti per consentire la decarbonizzazione dei mezzi di trasporto;

– accrescere l’integrazione, l’interconnessione e l’interoperabilità dei servizi di trasporto migliorando nel contempo l’accessibilità alle infrastrutture di trasporto.

Si rimanda all’appendice n. 3 per l’aggiornamento sulla realizzazione ed i finanziamenti della Torino-Lione e del Brennero, in questa sede si anticipa la recente decisione della Commissione europea di aumentare il contributo per le infrastrutture europee transfrontaliere, dal 40% al 50% del costo dei lavori;  nel prossimo bilancio 2021-2027, i finanziamenti europei in arrivo per la Torino-Lione e il tunnel del Brennero aumenteranno di circa 1,1 miliardi di euro, di conseguenza si abbasserà la quota residua che l’Italia deve ancora stanziare, circa 366 milioni, anziché 1,2 miliardi. ( Segue )

Pasquale Cialdini

 

[1] La Signora Margaret Thatcher, poiché nel Regno Unito il peso massimo era di 38 t, per dare il suo parere favorevole necessario per l’approvazione della direttiva,. chiese ed ottenne un cospicuo finanziamento per adeguare le strade del U.K. al nuovo peso consentito dalla direttiva.

[2] I dati sulla localizzazione degli incidenti stradali sono pubblicati ogni anno dall’Istat e dall’ACI.

[3] Queste le riduzioni dei “tassi di mortalità” (n. morti/100.000 ab.) dal 2000 al 2019 in alcuni Paesi europei: Francia (da 13,7 a 5), Germania (da 9,1 a 3,7), Olanda (da 6,8 a 3,8), Regno Unito (da 6,1 a 2,9), ma anche la Spagna (da 19 a 3,7), la Grecia (da 24 a 6,5) ed il Portogallo (da 22 a 7,7)

[4] Il dato sul costo sociale soprariportato di 33,8 miliardi è stato elaborato dall’ASAPS (Associazione Sostenitori e Amici della Polizia Stradale) ed è più elevato da quello pubblicato dal MIT che però si è basato solo sui dati Istat-Aci degli incidenti e non ha tenuto conto dei dati più elevati rilevati dall’ANIA (Associazione Nazionale fra le Imprese Assicuratrici) che tengono conto anche degli incidenti senza feriti non rilevati dagli organi di polizia.

[5] Fonte: elaborazioni ANCE su dati Eurostat.

[6] I centri intermodali sono più incentrati sullo scambio modale gomma-ferro, mentre gli interporti aggiungono servizi di stoccaggio e lavorazione dei flussi di merci. I centri intermodali possono rappresentare, insieme con i porti, un fattore determinante di competitività industriale, commerciale e logistica del territorio.

[7] Il settore  dei trasporti, (comprendente  il trasporto su strada e su rotaia, la navigazione marittima, fluviale ed aerea), genera il 10% per cento del Pil comunitario, crea il 7% dei posti di lavoro, assorbe il 40% degli investimenti degli Stati membri e richiede il 30% dei consumi di energia comunitari. Si tratta di un sistema complesso “a rete” che richiede il necessario supporto logistico e innovativo.

[8] Per il finanziamento comunitario delle reti transeuropee il Libro Bianco 2001 ha previsto, oltre agli interventi del bilancio e ai prestiti della Banca Europea degli Investimenti, l’emissione da parte della Commissione – con l’appoggio tecnico della BEI – di Union bonds a favore dei promotori dei progetti relativi alle reti trans-europee, e l’emissione da parte delle società private o pubbliche che promuovono il progetto di obbligazioni a lungo termine garantite dal Fondo europeo per gli investimenti e convertibili, interamente o parzialmente, in azioni o certificati di investimento.

[9] In un primo tempo nel corridoio 1 era compreso anche il Ponte sullo stretto di Messina, poi, giustamente depennato.

[10] Wim Kok, primo ministro olandese, aveva guidato un gruppo di esperti per analizzare i successi e gli insuccessi nei primi anni di applicazione della “Strategia di Lisbona” varata dall’U.E. nel marzo 2000.

[11] Uno dei parlamentari più critici è stato il portavoce per gli affari economici del PPE, Alexander Radwan, la cui dichiarazione è riportata in corsivo.

[12] CEF, ovvero “Connecting Europe Facility” che, tradotto in italiano, significa: “Meccanismo per collegare l’Europa”.

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