La prima parte di questo intervento è stata pubblicata ieri (CLICCA QUI). Una nota che si muove lungo una ricostruzione di antiche e nuove  vicende che possono prendere strade finora sconosciute, ed ulteriormente drammatiche

Il trauma del 7 Ottobre:   Non è certo mia intenzione scrivere queste righe per fare un elogio a Netanyahu ed al suo governo, ma ritengo necessaria questa breve deviazione. Poche righe indietro avevo menzionato la necessità di tenere conto della storia e della psicologia di una nazione. Questo è particolarmente vero per Israele, che nasce come Stato all’ombra dei pogrom, dell’Olocausto e di un perdurante antisemitismo sempre pronto a riaffacciarsi e colpire. Vi sono cose che lasciano impronte indelebili e che ne spiegano le reazioni ed il comportamento.

Con la giornata del 7 Ottobre lo Stato Ebraico perdeva per sempre l’idea della propria inviolabilità, che una volta persa non si recupera più: mai dalla sua nascita aveva visto profanate le sue frontiere e mai dai tempi della Shoah vissuto simili orrori. A cadere anche quel patto tra Stato e cittadino che avrebbe sempre garantito a quest’ultimo sia protezione che incolumità. A tenerlo vivo tutti i sacrifici che ha dovuto affrontare la popolazione di Israele negli ultimi 75 anni. Questi avvenimenti e la lacerante ferita che ne è seguita lo hanno infranto, cambiato il paese e fatto esplodere tensioni tali da arrivare a proporre l’obbligo del servizio militare agli Haredim (ultraortodossi), che fin dai giorni della fondazione di Israele ne erano stati esentati.

Dopo aver subito una ferita tale, Israele non poteva astenersi dal rispondere. La natura stessa del conflitto che ne è seguito lo ha posto purtroppo da un lato di fronte all’evidenza del suo isolamento internazionale e dall’altro l’assenza di prospettive di vittoria. Se la giornata del 7 Ottobre ha portato con sé alcune delle peggiori conseguenze possibili e messo in crisi tutto il vicinato, è anche vero che mai come oggi si potrebbero cogliere quelle opportunità per restituire pace all’intera regione. Ci sono, basta solo sforzarsi di vedere: sono tutte lì messe avanti dall’orrore cui stiamo assistendo.

Dopo i funerali di Haniyeh, celebrati a Tehran ed accompagnati da un bagno di folla e dalla recita della Preghiera dei Morti da parte della stessa Guida Suprema, è stata decretata una giornata di lutto. Per non lasciar nulla di frainteso, su molti edifici si vedeva sventolare una bandiera rossa, simbolo della vendetta. La sepoltura si è svolta in Qatar il venerdì 2 Agosto, proclamato “Giornata della collera”. Accanto al feretro c’erano rappresentanti di Hamas e della Jihad Islamica. Giornata di lutto decretata anche in Turchia. Hamas ed Iran giuravano vendetta.

Questi sviluppi inducevano il Segretario alla Difesa americano Lloyd Austin ad inviare navi ed aerei da combattimento nell’area per rinforzare le difese di Israele nel caso di un attacco dei vicini e dissuadere questi ultimi e l’Iran da provocare un allargamento del conflitto. Francia e Stati Uniti chiedevano ai loro residenti in Libano di lasciare il paese il prima possibile. Il presidente Biden si dichiarava molto preoccupato dalle tensioni in Medio Oriente ed in coro Tehran, Hezbollah, Hamas e gli Houthi continuavano ad invocare una risposta decisa ed ineluttabile. L’allarme ritorsioni si stava facendo sempre più serio ed Israele si preparava all’attacco.

Di questa risposta nessuno aveva idea di come si sarebbe potuta manifestare: la sfida era di darne una adeguata e che avesse senso, senza però comportare troppi rischi e tenere il conflitto entro certi limiti. Indispensabile per tutti salvare la faccia, utile a nessuno far precipitare la situazione.

Nella giornata di domenica una delegazione israeliana si era recata al Cairo per vedere di riprendere il filo delle trattative. Le dinamiche politiche interne ai vari attori rendevano più complicate le cose: Netanyahu aveva bisogno di tutelare il suo governo e distruggere i suoi avversari. Era talmente certo dell’impegno incondizionato di Washington che aveva ordinato l’uccisione di Haniyeh senza neppure informarla. Stretto tra le insistenze di Biden e le pressioni delle sue destre ultraortodosse e radicali, egli non era certo in una situazione comoda. Il presidente americano si trovava incastrato tra due opinioni pubbliche opposte ed un dibattito che si stava riflettendo negativamente anche in seno al suo partito. La Harris rischiava invece di giocarsi l’appoggio della sinistra democratica e di parte dell’elettorato se non avesse preso le distanze dalla politica di Biden.

Nella stessa giornata si erano riuniti i ministri degli Esteri dei paesi del G7. Avevano lanciato un appello alla pace e alla moderazione nell’augurio che se si fosse operato nel solco della razionalità non vi sarebbero stati né scontri diretti, né allargamento del conflitto. Si sospettava nel frattempo una probabile azione coordinata, soprattutto tra Iran ed Hezbollah, vittime entrambi dei recenti attacchi mirati da parte israeliana. Tehran affermava di avere il “diritto legale” di punire Israele. Sempre più persone si accalcavano nell’aeroporto di Beirut per lasciare il paese, inclusi molti turisti. Per via della ressa aumentava notevolmente il costo dei biglietti aerei. La marina americana aveva inviato alcune unità nelle vicinanze del porto in caso di un’evacuazione d’emergenza.

A Gaza proseguiva senza sosta l’offensiva dello Stato Ebraico e tra gli obiettivi  venivano colpite delle scuole indicate come luoghi nei quali Hamas nascondeva armi, uomini e mezzi. Numerose le vittime. Il ministro della Difesa Gallant dichiarava che il paese era pronto su tutti i fronti per opporsi al nemico e, vantando la solidità dell’alleanza con gli Stati Uniti, metteva in guardia l’Iran. Se sperava di rassicurare la nazione non gli era certo riuscito. Il resto del mondo intanto tremava come se qualcosa di terribile fosse dietro l’angolo. Non penso il copione lo prevedesse, anche se il Segretario di Stato Blinken riassumeva i timori facendo appello alle parti affinché evitassero di esasperare le tensioni e si astenessero da ogni escalation. A Tehran era intanto sbarcato il segretario del Consiglio di Sicurezza della Federazione russa Sergei Shoigu per rendere più effettiva la collaborazione tra le due nazioni. Si trattava di un altro segnale al quale, circa dieci giorni più tardi, Washington ammoniva l’Iran di non inviare missili alla Russia da usare in Ucraina. Allo stesso tempo però riprendeva la vendita di armi offensive all’Arabia Saudita.

Hamas ha un nuovo capo:   Il 6 Agosto giungeva la notizia che a rimpiazzare Ismail Haniyeh era stato scelto Yahya Sinwar. Capo dell’ala militare di Hamas, 61 anni, era nato in un campo profughi. Di fede sunnita, si era presto affiliato al movimento dei Fratelli Musulmani. A causa delle sue attività aveva poi passato 23 anni nelle carceri israeliane per uscirne nel 2011 a seguito di uno scambio di prigionieri. Era stato l’ideatore dell’attacco del 7 Ottobre e si nascondeva a Gaza. Sarebbe stato lui il soggetto con il quale Gerusalemme avrebbe d’ora in poi dovuto negoziare. Dopo gli esili dorati del ramo politico in Qatar, questa scelta indicava il ritorno di Hamas a Gaza. Per Israele il messaggio non poteva essere più chiaro tanto che il suo ministro degli Esteri ammoniva che sarebbe stato eliminato a breve. Netanyahu dal canto suo lo descriveva come un morto che cammina e ne prometteva l’eliminazione. Hamas ribatteva che con Sinwar alla guida era pronto a mostrare la sua volontà di resistere.

Di questa scelta il Segretario di Stato Blinken non si rallegrava, tanto da appellarsi sia a Tehran che a Gerusalemme chiedendo loro di astenersi dal provocare un conflitto in Medio Oriente. Dalla Farnesina, il nostro Tajani non trovava nulla di più originale da dire che sarebbe servita un’azione diplomatica ad ampio raggio. Sempre da queste parti e molto sicuro di sé, l’ex-responsabile del Sismi per il controspionaggio affermava che la guerra sarebbe presto scoppiata. Continuo a pensare che esauriti i fuochi d’artificio non vi sarebbe stato nessun allargamento del conflitto: tutti sanno come iniziare una guerra, molto più difficile dire come la si finisce. Perciò tranquilli, tant’è che sottolineando l’ovvio il presidente francese Macron dichiarava che un intensificarsi del conflitto non conveniva a nessuno.

Breve parentesi sull’Iran:  Malgrado l’allarme, il regime aveva comunicato che dopo le forti pressioni ricevute da Washington avrebbe fatto ogni sforzo per evitare un conflitto, non potendo tuttavia esimersi dal rispondere a ciò che aveva subito. L’idea era che avrebbe deciso tempi e modi della risposta senza però innescare una nuova guerra.

Resto convinto che, malgrado la retorica sapientemente distribuita, la Repubblica Islamica non voglia un conflitto più vasto. Quest’ultimo attentato non ne aveva che sottolineato ulteriormente la fragilità: al suo interno, buona parte dei cittadini era contraria all’idea che venissero dilapidati soldi pubblici per finanziare gruppi come Hamas ed Hezbollah e per venire in soccorso ad un personaggio come Assad in Siria. Lo scontento della popolazione era palpabile, così come lo erano le pessime condizioni economiche che avevano spiegato l’elezione a presidente di Pezeshkian.

Percepito come un moderato, egli guida quella che potrebbe essere considerata l’ala prudente del regime. Tradotto: il conflitto continuerà, ma a bassa intensità. Egli reclamava il legittimo diritto di rispondere in caso di attacco e respingeva l’appello dei paesi occidentali a fermarsi. Allo stesso tempo dichiarava che vi erano delle opportunità da cogliere ma che sarebbero serviti dei sacrifici.

In Iran gira oggi l’espressione “cucinare le cotolette”. Si tratta di una battuta di spirito piuttosto maligna che si riferisce all’attentato che aveva ucciso il generale Soleimani, capo della Niru-ye Qods, l’unità dei Guardiani della Rivoluzione responsabile per le azioni militari all’estero. Di lui erano rimasti solo pochi brandelli di carne che vennero descritti come delle cotolette. A seguito dell’uccisione di Haniyeh, su alcune tavole venivano servite delle cotolette per esprimere discretamente ed in modo indiretto un’opinione che sarebbe stato difficile manifestare altrove.

In passato l’Iran si era inserito nel contesto palestinese per uscire dal suo isolamento e marcare la sua presenza nella regione ergendosi a difensore di quel popolo ma senza avere interesse in un conflitto diretto con Israele. Generalmente parlando gli iraniani non sono ostili ad Israele: il problema è sorto nel 1979 a seguito dell’arrivo di Khomeini e della Rivoluzione Islamica. Influenzato dal movimento dei Fratelli Musulmani, egli aveva voluto crearne l’equivalente sciita. Come spesso accade in momenti di grande subbuglio nazionale, serviva crearsi dei nemici esterni. La scelta cadde sugli Stati Uniti, il Grande Satana, ed Israele, il Piccolo Satana.

Andrebbe ricordato che l’Iran decise di riconoscere Israele nel 1950 e fino alla fine del regime dello Shah i rapporti erano stati ottimi. In epoca più remota, la Persia aveva ospitato ed integrato la più antica delle diaspore, così come ricordato nel libro biblico di Ester: andata sposa al re persiano Assuero, questi salvò poi gli Ebrei dallo sterminio.

A seguito della rivoluzione del 1979 il capo dell’OLP Yasser Arafat sbarcò a Tehran da un aereo datogli in prestito dal siriano Assad per cercare appoggio dal nuovo regime. Quest’ultimo decise così di interrompere i rapporti con Israele: il suo personale diplomatico dovette lasciare il paese e le porte della tolleranza si chiusero sulla comunità ebraica iraniana, tanto che servì un ponte aereo per evacuarne migliaia. I rapporti con Arafat furono di breve durata, tanto che per conservare un piede nell’area e continuare ad appoggiare la causa palestinese, il regime iraniano puntando sull’elemento religioso decise di finanziare Hezbollah, Hamas e venire in soccorso agli Houthi nello Yemen. Ben più forti ed organizzati di Hamas, i libanesi di Hezbollah, non sono disposti a sacrificare se stessi ed il Libano per la causa. Scontri si, ma non oltre una certa soglia.

Tornando ad oggi ed in attesa di qualcosa di più concreto, lo scontro in Iran si sta combattendo intanto sui social media con eloquentissime immagini di parate militari, lanci di missili, dimostrazioni di forza, sfoggio di armi pericolose e letali e potenti equipaggiamenti. Immagini che comunicavano potenza, determinazione, capacità militare e prodezze tecnologiche. Un efficace dispiegamento di propaganda allo scopo di intimorire e spaventare sia il nemico esterno che l’opposizione interna. Serviva soprattutto a coprire la debolezza del regime: sempre meglio spettacolari dimostrazioni di forza sui social che nella realtà.

Ulteriori tentativi di negoziato:  Su richiesta di Stati Uniti, Egitto e Qatar, Netanyahu si dichiarava disponibile per il 15 Agosto a riprendere i negoziati in vista di un accordo su Gaza. Voluto dal presidente Biden già dal 31 Maggio, questo progetto trovava in teoria Hamas ed Israele aperti alle trattative ma li vedeva di opinioni contrarie riguardo le modalità. In caso di raggiunto accordo, Iran ed Hezbollah si erano dichiarati entrambi disponibili a rinunciare alla rappresaglia.

Hamas vorrebbe una cessazione definitiva delle ostilità ed il ritiro completo dalla Striscia delle Forze armate israeliane insieme ad un rilascio graduale degli ostaggi in cambio della liberazione di un certo numero di detenuti nelle carceri israeliane. Gerusalemme invece chiedeva la sospensione temporanea del conflitto in attesa di una soluzione definitiva del problema degli ostaggi. Avrebbe negoziato sui prigionieri da liberare ma rifiutava il ritiro totale da Gaza. Voleva conservare due corridoi, quello cosiddetto di Filadelfia al confine con l’Egitto per timore di contrabbando tramite i tunnel e quello di Netzarim, che taglia in due la Striscia e consente il controllo di chiunque voglia muoversi da una parte all’altra.

10 e 13 Agosto, la situazione si aggrava:  Nella giornata di sabato arrivava la notizia che a seguito di un attacco missilistico israeliano era stata colpita una scuola a Gaza che ospitava molti rifugiati. I danni erano stati ingenti, così come le perdite umane. Si parlava di qualcosa come cento morti. Si era trattato di uno degli attacchi più letali dall’inizio delle ostilità.

Israele ammetteva l’azione giustificandola col fatto che all’interno dell’edificio si nascondeva un centro di comando di Hamas. I terroristi uccisi sarebbero stati 19, numero che sarebbe successivamente salito a 31. E’ per questo motivo che nella Striscia erano state interamente o parzialmente distrutte almeno quattro scuole su cinque. Senza perdere tempo, Hamas denunciava l’attacco come “un crimine orrendo”. Per l’inviato Onu si era trattato di un “genocidio”. In questi mesi, nel corso delle operazioni militari circa l’80% della popolazione di Gaza si era trovata costretta a lasciare la propria dimora per rifugiarsi altrove. Per via dell’insicurezza dei luoghi causa il prolungarsi dell’offensiva e le difficoltà di raggiungere un accordo, questi trasferimenti erano stati in molti casi ripetuti.

La settimana successiva il ministro per la Sicurezza nazionale Itamar Ben Gvir, circondato da suoi seguaci ed accompagnato da una folla di almeno tremila credenti, si recava in preghiera sulla Spianata delle Moschee, terzo luogo santo dell’Islam. La provocazione non poteva essere più evidente ed in un clima come quello del momento non poteva che esasperare gli animi. Come se ciò non fosse bastato, egli aveva anche affermato di voler far costruire una sinagoga in quel luogo. L’episodio veniva denunciato da numerosi governi, tra i quali quelli di Stati Uniti, Francia e Qatar. A queste voci si sono unite anche le condanne da parte di cinque rabbini di fama, tutti concordi nel denunciare l’iniziativa di andare a pregare sulla Spianata.

Nuove pressanti richieste per un accordoDi fronte a questi ulteriori sviluppi, poco da stupirsi se si andavano intensificando le pressioni per una ripresa delle trattative di pace per Gaza. Stati Uniti e Qatar dichiaravano entrambi che non vi era più tempo da perdere. In coro, la comunità internazionale sciorinava dichiarazioni chiedendo alle due parti di non far saltare le trattative. Tradotto: abbiamo tutti paura della guerra.

A coordinare le discussioni sarebbero stati nuovamente Stati Uniti, Egitto e Qatar. A Doha, oltre che i rappresentanti di casa e dell’Egitto, sarebbero stati presenti anche il direttore della Cia William Burns insieme ai capi del Mossad e dello Shin Bet, il servizio segreto interno di Israele. Assente Hamas. Aveva dichiarato la sua adesione ai princìpi sui quali si sarebbero basate le trattative e la speranza che Israele non  avrebbe fatto opposizione. Le indicazioni di partenza: tregua di sei settimane, liberazione degli ostaggi con scambio di prigionieri e ritiro dell’esercito israeliano dalle aree più popolate di Gaza.

Per molti osservatori le speranze erano minime, visto che le Forze armate israeliane non intendevano rinunciare alle loro operazioni all’interno della Striscia. Altri, meno pessimisti, si aspettavano una tregua ma solo di breve durata. Per i più ottimisti, se le trattative fossero andate a buon fine, vi sarebbe stata la possibilità che sia Hezbollah dal Libano che l’Iran avrebbero rinunciato alla rappresaglia.

In Israele continuavano puntuali le manifestazioni settimanali a favore della tregua e la liberazione degli ostaggi, 111 dei quali sarebbero ancora in vita. Quelli morti nel frattempo sarebbero una trentina. Le Forze armate di Israele avevano comunicato che nel corso degli scontri erano stati uccisi intorno ai 17 mila combattenti di Hamas, mentre quest’ultima invece affermava che le vittime civili erano salite a 40 mila e che i feriti erano 92 mila. Tenendo conto dei risultati di una serie di importanti bombardamenti nel corso della Seconda Guerra Mondiale, sono certo che questa cifra riguardi non solo la popolazione civile ma anche i combattenti di Hamas.

Il 16 agosto l’incontro di Doha si concludeva con un nulla di fatto, anche se più parti lo avessero descritto come serio e costruttivo. La riunione successiva si sarebbe svolta al Cairo, dato che nessuna delle parti in causa vi aveva rinunciato e lo stesso presidente Biden continuava a dichiararsi ottimista: l’incontro era stato definito come un inizio promettente ed un importante passo avanti. Per il Qatar il lavoro di mediazione doveva proseguire e per sicurezza avanzava all’Iran la richiesta di desistere da qualsiasi attacco. La speranza era di riuscire a proporre nuove condizioni e mettere sul tavolo idee che tenessero conto delle esigenze espresse dalle parti in conflitto.

I negoziatori israeliani esprimevano un cauto ottimismo. Da parte di Hamas e di una componente dell’opinione pubblica israeliana però l’accordo che Biden giudicava vicino non era che un’illusione. In caso di fallimento dei colloqui e per marcare la sua presenza, l’Iran minacciava un attacco e metteva in guardia contro gli inganni di Israele e le falsità degli Stati Uniti.

Sempre vigile e presente, il Segretario di Stato Blinken chiedeva alle due parti di non far deragliare le trattative ed annunciava che si sarebbe recato nuovamente al Cairo ed in Qatar per preparare il terreno ad ulteriori incontri. Egli continuava ad esprimere un senso di urgenza e chiedeva ad Hamas di non sabotare le trattative. Il problema era però che entrambe le parti si accusavano a vicenda di farlo. Dal Cairo l’appello per un cessate il fuoco nel timore di un conflitto regionale in caso le trattative non fossero proseguite. Blinken comunicava che il premier Netanyahu aveva accettato il piano presentato dagli Stati Uniti e chiedeva ad Hamas di fare altrettanto. Aggiungeva che il suo paese rifiutava l’idea di una occupazione a lungo termine della Striscia di Gaza da parte israeliana.

In casa Netanyahu continuava ad essere sotto pressione per via delle incessanti proteste dell’opposizione e di parenti e amici degli ostaggi che si sentivano abbandonati e traditi. Spinte opposte gli venivano dalla sua parte politica, che gli chiedeva invece di dare la precedenza alla distruzione di Hamas. Malgrado le costanti esortazioni a concludere un accordo, le trattative sembravano al collasso con entrambe le parti su posizioni diverse. Il punto di maggior contesa era la presenza israeliana lungo il corridoio Filadelfia.

Un nuovo attacco sul Libano:  il 21 agosto la notizia di un ulteriore attacco mirato di Israele sul suolo libanese, a danno questa volta dell’esponente palestinese Khalil Maqdah. Si trattava della prima volta dall’inizio del conflitto che Israele colpiva un uomo di Fatah, in questo caso della sua organizzazione armata Brigate dei Martiri di al-Aqsa. L’accusa nei suoi confronti era di trasferire via Giordania armi e fondi di provenienza iraniana per finanziare cellule terroristiche nei territori occupati di Cisgiordania. L’Autorità Nazionale Palestinese aveva subito rivolto ad Israele l’accusa di voler dare fuoco alla regione. Quest’ultimo episodio confermava nuovamente che la spirale di violenza non sembrava fermarsi e che Israele non avrebbe rinunciato a colpir duro quando necessario. Questa era la seconda uccisione mirata in Libano effettuata da Israele. Da più parti sorgeva il timore che alla conclusione della missione di Blinken potesse riesplodere la violenza.

Il Segretario di Stato aveva lasciato Doha annunciando che i negoziati sarebbero ripresi al Cairo. Hamas annunciava nuovamente che non vi avrebbe partecipato. Teheran si rifaceva viva, avvertendo che in queste condizioni la sua risposta sarebbe stata solo questione di tempo. Inutile dire che per molti osservatori il timore di un inasprimento del conflitto si faceva più reale che mai. In un colloquio telefonico, Blinken insisteva con Netanyahu sull’importanza di una tregua. La situazione sembrava giunta ad un punto morto ma tuttavia i tentativi non si esaurivano. A confermarlo, la notizia che il direttore della Cia William Burns si sarebbe recato di persona al Cairo dove avrebbe incontrato il suo omologo del Mossad Barnea entrambi con l’intento di resuscitare la speranza in un negoziato. Sarebbero stati maturi i tempi per una soluzione?

Per Hamas restava irrinunciabile il ritiro totale delle Forze armate israeliane dall’intera Striscia di Gaza. Una volta per tutte dovevano inoltre cessare anche le ostilità. Da parte sua Israele non voleva rinunciare alla presenza militare lungo i 14 chilometri del corridoio Filadelfia al confine con l’Egitto e di quello Netzerim, che taglia in due la Striscia e consente di controllare chi si sposta da una parte all’altra. Non menzionava la fine delle ostilità, ma solo una cessazione temporanea. Contrario al mantenimento del controllo di Israele sul corridoio Filadelfia era lo stesso Egitto, in quanto avrebbe potuto mettere in discussione il trattato tra le due nazioni.

A seguito della notizia di un massiccio attacco missilistico da parte di Hezbollah, Israele lanciava un’operazione preventiva sul suolo libanese. Partivano comunque 320 missili ed un certo numero di droni contro 11 postazioni israeliane. In un discorso della durata di un’ora, il leader di Hezbollah Hassan Nasrallah comunicava il successo dell’azione ed indicava che per il momento questa poteva ritenersi conclusa.

L’attacco non era che l’inevitabile risposta all’uccisione di Shukr a Beirut. Se è stata tardiva, il motivo era essenzialmente di natura psicologica: tenere Israele sulle spine mantenendo intatta la pressione sulla popolazione civile. Gerusalemme comunicava di aver invece sventato un massiccio attacco da parte di Hezbollah che avrebbe potuto colpire addirittura Tel Aviv. Il gruppo sciita smentiva la notizia e con le sue dichiarazioni contraddittorie evidenziava la volontà di non aumentare la tensione sul fronte libanese: quando possibile gettare benzina sul fuoco, ma non oltre un certo limite. Netanyahu replicava di non avere ancora finito di regolare i conti con Hezbollah. Dallo Yemen nuove minacce di colpire il territorio israeliano. Uno schiaffo allo Stato Ebraico per Hamas.

Come d’abitudine un gran vortice di voci e minacce provenienti da ogni parte, ma l’impressione per me non cambia: si tratta del solito gioco nel quale nessuno in fin dei conti ha intenzione di prendersi la responsabilità di allargare il conflitto. Non a caso dal Libano un sondaggio dava il 90% della popolazione favorevole alla cessazione delle ostilità che avevano già causato nel paese più di 600 morti, in maggioranza di Hezbollah.

Silenzio da parte del regime iraniano che per motivi di pressione psicologica continuava a tenere tutti sulle spine. Stando al gioco, gli Stati Uniti ordinavano lo spostamento nel golfo dell’Oman di due portaerei accompagnate da un gruppo navale. Un segnale a Teheran. Le monarchie del Golfo e l’Arabia Saudita nel frattempo nicchiavano. (Segue)

Edoardo Almagià

 

About Author