Questa è la terza parte dell’intervento di Edoardo Almagià sulla situazione in Medio Oriente. Le prime due sono state pubblicate ieri (CLICCA QUI) e il giorno precedente (CLICCA QUI).

Un nuovo fronte in Cisgiordania?:   Poco prima della fine di Agosto veniva annunciata la liberazione di un ostaggio a Gaza e si assisteva all’inizio di una vasta operazione militare in Cisgiordania che investiva un certo numero di campi profughi tra i quali Jenin, Tulkarem e Nur Shams. Le vittime sarebbero state dieci. Le Nazioni Unite denunciavano subito l’accaduto. Secondo il portavoce delle forze israeliane si sarebbe trattato di un’operazione di contro-terrorismo per interrompere un traffico d’armi ed il consolidarsi di cellule di Hamas. Dall’inizio delle ostilità si erano contate in Cisgiordania circa 650 vittime palestinesi ed una ventina da parte israeliana.

A Gerusalemme nessuno al governo voleva uno Stato palestinese così anche per una parte della società israeliana, tanto che nella confusione e le emergenze in corso i coloni ne stavano approfittando per allargare i loro possedimenti considerati parte integrante di una Grande Israele. Di fronte a queste provocazioni il presidente Biden annunciava di aver sanzionato un certo numero di coloni colpevoli di azioni violente nei confronti della popolazione palestinese. Per Israele, come per i palestinesi, questa guerra era una discesa all’inferno.

Con l’inizio di questo mese l’azione in Cisgiordania non si interrompeva. Si stava verificando il fenomeno di gruppi armati formati soprattutto da giovani che si stavano unendo tra loro riuscendo a sottrarsi al controllo dell’ANP. Secondo lo Shin Bet vi era il rischio dell’apertura di un terzo fronte che avrebbe potuto impegnare ulteriormente le Forze armate già sul campo a Gaza e al confine col Libano.

Questa che si stava sviluppando era la più vasta operazione militare mai condotta in Cisgiordania. Secondo fonti delle Nazioni Unite si trattava di una serie di incursioni senza precedenti. Le vittime erano salite a 17, tra queste Mohammed Jaber, uno dei capi della Jihad Islamica. Ad innalzare ulteriormente la tensione l’agire provocatorio di un certo numero di coloni che pure loro riuscivano a sottrarsi al controllo dell’esercito. Le Nazioni Unite esprimevano una decisa condanna contro queste incursioni il cui effetto sulla popolazione civile non poteva che dirsi devastante. Veniva chiesta anche l’immediata cessazione delle operazioni militari. Da Bruxelles il commissario Borrell, pur non facendo direttamente nomi, invocava la possibilità di sanzionare alcuni ministri israeliani per le loro prese di posizione a dir poco estreme. Per non essere da meno, Hamas faceva appello ad un ritorno agli attentati suicidi in territorio di Cisgiordania.

E’ dal 7 Ottobre che queste operazioni in Cisgiordania erano andate aumentando. Il motivo è facile da spiegarsi: Israele temeva che potesse verificarsi in quei territori quello che è avvenuto a Gaza. Le distanze sono infatti minime e basti pensare che l’area di Tulkarem si trova a pochi chilometri da importanti centri israeliani. Il timore è che stiano per iniziare lavori di scavo sotterranei per realizzare dei tunnel dai quali emergere di nascosto e colpire Israele. Le operazioni in corso sono dunque propedeutiche ad impedire che possa avvenire in Cisgiordania qualcosa di simile agli orribili episodi di quasi un anno fa a Gaza.

Se per l’Unione Europea era il caso di sanzionare ministri che propagano odio e disordine, per il premier Netanyahu era impellente provvedere alla sicurezza di Israele. La sua non è certo una posizione comoda. Si trova infatti tra due fuochi: da un lato, l’amministrazione americana insieme ad una componente del suo paese e della comunità internazionale tutte a premere per una soluzione e, dall’altro, la destra radicale israeliana con gli estremisti religiosi che reggono il suo governo ed una consistente parte della popolazione che insistono invece per la linea dura. Basti pensare al ministro delle Finanze Smotrich, che non fa che insistere per rafforzare la presenza militare e civile di Israele in Cisgiordania dichiarandosi del tutto contrario ad uno Stato palestinese ed al suo collega, il ministro della Sicurezza nazionale Ben Gvir, che prometteva di usare tutte le sue forze per bloccare le trattative in corso e distruggere Hamas.

I morti palestinesi salivano a 20. Nel corso del terzo giorno di combattimenti in Cisgiordania si svolgevano i funerali delle vittime. Da parte della popolazione civile si parlava di resistenti, per Israele al contrario erano terroristi. Come nel caso di Gaza, l’esercito israeliano sembrava operare nella logica di annientare la componente militare di Hamas in Cisgiordania che, insieme alla Jihad Islamica, aveva manifestato l’intenzione di riprendere gli attentati nelle città israeliane.

Domenica 31 Agosto si apriva il quarto giorno delle operazioni militari. I combattimenti si concentravano nel nord, soprattutto a Jenin e nei in campi limitrofi. Nei pressi di Hebron venivano sventati tre attentati con delle autobomba. Successivamente, la notizia dell’uccisione di due agenti ed il ferimento di un terzo ad un posto di blocco. L’assalitore veniva abbattuto. In Israele il Consiglio dei Ministri votava per rendere permanente la presenza dell’esercito lungo il corridoio Filadelfia. A Gaza si continuava a combattere e venivano ritrovati i corpi di sei ostaggi che si sarebbe poi scoperto essere stati giustiziati per evitarne la liberazione.

Il mese di Settembre si apriva con un Biden frustrato ed un Blinken esausto dopo nove viaggi consecutivi nella regione. La Casa Bianca aveva più volte annunciato che si era prossimi ad un accordo e che la macchina della diplomazia era in moto ovunque, da Washington al Cairo, da Doha a Tehran. Il negoziato era però dei più complessi e nessuno degli antagonisti sembrava disposto a rinunciare alle sue posizioni. A rendere più difficili le cose, lo stato dei rapporti tra il presidente americano ed il premier israeliano che sembrava puntare sull’elezione di Trump. Non sarà fatica da poco giungere ad un accordo. Forse qualcosa di più si sarebbe potuta far prima, ma non è stata fatta col risultato che una situazione già di per se complessa non faceva che complicarsi.

La morte dei sei ostaggi aveva suscitato emozione e rabbia esasperando anche di più l’opinione pubblica. Si sono viste grandi manifestazioni in tutto il paese accompagnate dalla richiesta delle dimissioni di Netanyahu. La più imponente si è svolta a Tel Aviv con i partecipanti che insistevano sulla firma di un accordo, meno rigore ed un cambiamento di rotta da parte del governo. Più raccolta quella di fronte alla residenza di Netanyahu a Gerusalemme., Proteste anche in questo caso contro il governo e richiesta della firma di un accordo. In contemporanea vi erano stati anche cortei di segno opposto che definivano Hamas una banda di assassini, chiedevano al governo di non cedere e sottolineavano la necessità di schiacciare una volta per tutte l’organizzazione islamica. Per nulla intimorito da questa ondata emotiva, il premier dichiarava che avrebbe regolato i conti con Hamas.

Dietro le quinte e favorevoli alle richieste della piazza erano anche Benny Gantz e Yair Lapid. Il primo, ex-Capo di Stato Maggiore delle Forze armate, oggi alla guida del partito Resilienza per Israele, ha fatto parte del Gabinetto di guerra fino al 9 Giugno. Importante esponente politico e fondatore del partito Yesh Atid, il secondo è attualmente leader dell’opposizione. Entrambi sono favorevoli ad una maggiore flessibilità e alla rinuncia della presenza militare nel corridoio Filadelfia. A premere per un negoziato anche i vertici delle Forze armate e dei servizi di sicurezza che ritenevano inattuabile ottenere ciò che voleva il governo.

Molto legato alle forze di sinistra, il sindacato Histadrut chiamava a raccolta le forze liberali della nazione in vista di uno sciopero generale. Obiettivo: bloccare il paese e costringere il governo a rendersi più disponibile ad una ripresa delle trattative, maggiori concessioni e la firma di un accordo per riportare a casa gli ostaggi. A sospendere il lavoro sarebbero state tutte le categorie, dai lavoratori aeroportuali agli insegnanti, fino ai medici e al personale ospedaliero. Il partito Likud e le destre si dicevano contrarie e non vi avrebbero partecipato.

Lunedì 2 Settembre, giorno dello sciopero generale, interveniva il Tribunale del Lavoro che ne ordinava la sospensione in quanto non attinente a tematiche lavorative. Negozi e ristoranti rimanevano comunque chiusi.

Presentatosi di fronte alla nazione, il premier Netanyahu si scusava per la morte dei sei ostaggi dichiarandosi rattristato per non essere riuscito a fare abbastanza per liberarli: “Vi chiedo perdono per non averli riportati a casa. Ci eravamo vicini ma non ci siamo riusciti”. Chiedeva al paese di restare unito contro un nemico brutale e che lui stesso non avrebbe ceduto alle pressioni. Ha poi lasciato intendere senza margine di dubbio che non vi sarebbe stato un cessate il fuoco e che non avrebbe dato l’ordine alle Forze armate di ritirarsi da Gaza.

Avendo dichiarato che nessuno poteva fargli la morale, egli accusava Hamas di rifiutare ogni accordo, di essere costituita da selvaggi e terroristi piantati dall’Iran alle frontiere di Israele. Egli escludeva in ogni modo di interrompere le sue azioni a Gaza ed in Cisgiordania e si dichiarava determinato a vincere.

Indipendentemente dalle sue posizioni egli è tutt’ora alla testa di un governo che non ha perduto la sua maggioranza: ha 64 seggi su 120 e nessuno al momento ha voluto dimettersi. C’è in carica un esecutivo che non intende cedere su Hamas e che alle spalle ha una parte consistente della società che ne costituisce la base elettorale e non intende mollare: una destra ultra-religiosa, intransigente e nazionalista capace di trarre forza anche dalle tendenze demografiche in atto nel Paese. Se a ciò si aggiunge che le Forze armate non hanno fatto che mietere successi, vi è poco da stupirsi se Netanyahu non cederà alle pressioni dell’opinione pubblica e degli alleati e che continuerà ad andare avanti indipendentemente da ciò che gli viene chiesto.

Due cose impossibili da riconciliareSe in Israele malgrado i dibattiti e le divisioni, segni indiscutibili di vitalità democratica, è viva e presente l’intenzione di liberare gli ostaggi per vederli tornare a casa, non meno pressante è anche ottenere una vittoria definitiva su Hamas. Riuscire a fare entrambe le cose è impossibile.

Alla domanda di un giornalista che gli chiedeva se pensasse che il premier Netanyahu stesse facendo abbastanza in vista di un negoziato, il presidente Biden rispondeva con un secco “no”. A Londra il governo laburista di Starmer ordinava la sospensione di parte delle forniture militari destinate ad Israele. Un segnale a dir vero piuttosto modesto vista l’esiguità delle consegne.

Alla luce di questi fatti e tenendo conto dell’attuale debolezza sia di Biden che di Starmer, Netanyahu non si sentiva obbligato ad ubbidire. Sapeva che gli Stati Uniti non lo avrebbero mollato e che gli inglesi avevano dichiarato qualche tempo prima che in caso di attacco da parte dell’Iran gli sarebbero venuti in soccorso. In un certo senso, più rilevanti per lui l’umore dell’opinione pubblica interna e di quella internazionale che si andavano ad aggiungere alle divisioni in seno alla stessa comunità ebraica americana, non sempre favorevole alle azioni militari di Israele ed un terzo della quale pronta a parlare di genocidio. Un altro 40% appoggiava l’iniziativa di tagliare i rifornimenti militari.

Il premier Netanyahu da l’impressione di essere inossidabile ed in grado di imbonire tutti. E’ forte, punta i piedi, resiste e non vuole firmare un accordo. A parte le sue posizioni personali, sono i suoi stessi alleati di governo a spingerlo a non cedere, pena la minaccia di dimissioni. Lui ne è cosciente, come sa di avere alle spalle la maggioranza del paese. Molti dicono che stia in attesa di una rielezione di Trump, cosa sulla quale sembrerebbe scommettere. Benché sotto costante pressione da più parti, egli sa di non essere isolato in Israele così come sa anche che su un punto sono in molti a dargli ragione: andare fino in fondo nel distruggere Hamas.

Le famiglie degli ostaggi, i loro sostenitori e tutti i militanti anti-governativi non chiedono altro che un accordo che dia la precedenza alla liberazione degli ostaggi  seguito poi dalle dimissioni del premier, accusato di agire esclusivamente per la sua sopravvivenza politica. Invocano anche la soluzione a due Stati, che però tra arabi e israeliani sono in molti a non volere.

Hamas esige che Israele abbandoni l’intera Striscia di Gaza. Deve in qualche modo riscattarsi agli occhi della comunità palestinese e salvare la faccia soprattutto dopo aver causato enormi sofferenze alla popolazione civile per le sue scelte politiche. Sa bene che gli ostaggi che detiene sono un elemento di vantaggio ed un’assicurazione sulla vita dei suoi militanti. Se Netanyahu dovesse decidere di sacrificarli, perderebbero però ogni valore.

Hamas, che non vuole essere meno del suo implacabile rivale, sa che solo ciò che fa male potrà costringerlo a mutare atteggiamento. In questa lotta senza esclusione di colpi avvisava che ogni qual volta dei militari si fossero avvicinati agli ostaggi, questi sarebbero stati eliminati. Ha più volte insistito che la sorte degli ostaggi è nelle mani del premier Netanyahu, criminale di guerra e capo di un esercito di terroristi, che accusa di non rinunciare alla sua intransigenza, di fare ostruzionismo sull’accordo e di essere un testardo che rifiuta di discutere la liberazione degli ostaggi.

Gli Stati Uniti, di fronte ad un bilancio politico tutto sommato negativo e alla necessità di esercitare fortissime pressioni sulle parti avverse, si stavano rendendo conto che con tutto ciò che si andava verificando non sarebbe stato esercizio da poco giungere ad un accordo. Non possono inoltre mollare Israele che è il loro più consistente alleato nella regione.

C’è chi potrebbe avere da ridire, ma non va perduto di vista che non vi sono solo israeliani e palestinesi ma anche altri attori, diversi tra loro, con le proprie situazioni complesse e spesso contraddittorie da affrontare.

L’esempio iraniano:  Senza andar lontano, sia sufficiente il caso dell’Iran. Ha ambizioni che sa di non poter realizzare ma agisce sulla scena locale come se potesse farlo. La dottrina ufficiale del regime consiste nel combattere gli Stati Uniti, distruggere Israele ed assicurare il trionfo finale degli sciiti, conquistando i luoghi sacri dell’Islam. In vista di quest’ultima parte, la vittima designata non può che essere l’Arabia Saudita. Ciò spiega i cosiddetti “accordi di Abramo”.

Per farsi strada nella regione, come visto in precedenza, Tehran ha strumentalizzato la questione palestinese ergendosi di fronte alle masse arabe come il soccorritore della causa di quel popolo quando i loro capi si inchinano invece di fronte all’Occidente e trattano con Israele. Non è un caso che dal 1948 il conflitto arabo-israeliano non abbia che alimentato dittature locali.

Quando i regimi autoritari si sentono fragili ed in perdita di consenso, fanno spesso uso della politica estera e delle avventure militari: è per loro necessario sia tenere unita la nazione che mostrare agli altri cosa sono capaci di fare all’estero per evidenziare di non essere disposti ad accettare sfide interne. Rompendo con Israele e dichiarandosi alfiere della causa palestinese, il regime iraniano mostrava di voler allargare il suo sguardo verso il mondo arabo per assicurarsi la leadership sulla comunità islamica.

Dopo aver rotto con il capo dell’OLP Arafat, la Repubblica Islamica radunava quei palestinesi di tendenze fondamentaliste per creare un’opposizione a Fatah ed inserirli nella sua orbita. Da qui la sponsorizzazione di Hamas che ci porta poi direttamente ad oggi ed al suo distanziamento dai regimi sunniti e soprattutto dalle monarchie conservatrici del Golfo.

Gli eventi che hanno fatto seguito alla giornata del 7 Ottobre hanno consentito all’Iran di riprendere l’iniziativa nella regione e diventarne la potenza dominante, cosa particolarmente vera in Iraq, Siria, Libano e Gaza, con un piede nello Yemen. Questa situazione ha consentito alle autocrazie di far leva sull’antisemitismo come strumento nella loro sfida all’Occidente, riuscendo anche a fare breccia nella sua gioventù. L’antisemitismo dunque come arma per screditarlo e guadagnare consensi nel mondo arabo e nel cosiddetto Sud globale.

Russia e Cina, autoproclamatesi protettrici dei palestinesi, ne hanno approfittato per creare un asse con l’Iran, allargare le loro aree di influenza e portare la regione all’interno di un più vasto progetto contro le democrazie liberali. In questa partita si trovano coinvolte tutte le principali nazioni della regione che sarebbe nostro interesse far pendere dalla parte dell’Occidente.

E’ per questo motivo che gli Stati Uniti considerano oggi l’Iran come il più grande nemico alla stregua di Cina e Russia mentre Netanyahu sta facendo il possibile per alimentare questa contrapposizione. Allo stesso tempo però, insieme all’estrema destra israeliana egli è di fatto alleato di Tehran, così come Assad in Siria lo era stato con lo Stato Islamico. L’Iran non ha però interesse ad una guerra totale non essendo forte abbastanza per sostenerla. Persino Hezbollah, che ne è una pedina, aveva annunciato che si sarebbe fermato una volta raggiunto il cessate il fuoco a Gaza. Entrambi giocano ad esasperare le tensioni nella speranza di vedere prima o poi Washington mettere sotto pressione Israele.

Il ruolo del Qatar:    Quest’intera partita ha messo in grande imbarazzo Washington, che si è trovata a dover tenere in considerazione i molteplici aspetti della questione, cosa che le rende meno facile persuadere Netanyahu a rivedere le sue posizioni e fare un passo indietro. Entrambi in questa faccenda hanno le mani sporche e non possono vantare un passato immacolato. Ognuno a modo loro aveva contribuito a rafforzare Hamas incoraggiando il Qatar ad aprirgli le porte e finanziarlo. Come?

Non senza cinismo, il premier israeliano aveva pensato che consolidare la presenza di Hamas a Gaza avrebbe potuto mettere in difficoltà l’Autorità Nazionale Palestinese  rendendo di riflesso impossibile la soluzione a due Stati.

L’utilità di un contatto indiretto con Hamas era evidente per gli Stati Uniti tanto che, nel 2012, a seguito di una loro richiesta veniva aperto a Doha l’ufficio politico di Hamas che comunque restava sempre un’organizzazione terroristica. Tre amministrazioni americane avevano appoggiato il ruolo del Qatar come mediatore con forze dell’estremismo islamico: sia sufficiente ricordare che all’epoca di Trump, a Doha si erano regolarmente riuniti emissari americani e Talebani per negoziare le condizioni del ritiro di Stati Uniti e Nato dall’Afghanistan.

Andrebbe tenuto presente che in Qatar il clero non ha mai avuto quel ruolo politico dominante come in Iran ed in Arabia Saudita. Gli imam, quasi tutti di provenienza estera, sono pagati dalle autorità e quindi obbediscono.

Il Qatar aveva per anni generosamente finanziato Hamas ed ospitato i suoi leader politici in hotel a 5 stelle. Si trattava di tenere un canale aperto con loro e alleviare le sofferenze della popolazione di Gaza per la quale questa assistenza sarebbe stata un’ancora di salvezza. Con il consenso di Stati Uniti ed Israele, tramite l’Agenzia delle Nazioni Unite per il soccorso e l’occupazione dei profughi palestinesi (UNRWA), Doha forniva aiuti umanitari ed elettricità alla popolazione. Questi prima di arrivare alla società civile passavano però per le mani di Hamas che li usava per finanziare le sue attività ed acquistare armi.

A spiegare questa decisione del Qatar di farsi strumento degli Stati Uniti era un senso di profonda insicurezza dovuta al contesto di un vicinato pericoloso caratterizzato dalla presenza di vicini ingombranti quali Iran, Arabia Saudita e le altre monarchie del Golfo. Il primo, con cui condivide il suo più grande giacimento di gas, ha una politica di proiezione nell’area che ne minaccia gli equilibri. Non è dunque un caso che l’emirato ospiti anche la più importante base americana di tutto il Medio Oriente.

Quanto agli altri, è bene ricordare che nel 2017 Arabia Saudita, Egitto, Emirati Arabi Uniti, Bahrain e Yemen decisero per la rottura delle relazioni e l’istituzione di un embargo che lo avrebbe isolato fino al 2021. La sua monarchia era stata accusata di fiancheggiare il gruppo dei Fratelli Musulmani e di complicità con le forze eversive della regione. A complicare le cose la sua rete televisiva al-Jazeera, considerata come ostile e faziosa. Tale era il timore di una sua invasione che Ankara decise l’invio di un contingente militare per garantirne la sicurezza.

Per venire incontro alle richieste di Washington e del suo alleato israeliano, la presenza di Hamas veniva dunque accettata per ragioni di opportunità. In questo gioco si è successivamente inserita la destra israeliana che paradossalmente ha finito con l’assecondare l’asse Hamas-Iran a Gaza. Lo scopo era indebolire l’Autorità Nazionale Palestinese, dividere il fronte avversario e togliere credibilità alla prospettiva di due Stati. Per via della sua corruzione endemica e della sua incapacità politica, l’ANP finiva anche bersaglio di Hamas ed Hezbollah.

Il problema dei coloni e la Cisgiordania:  Con questa sorta di tacito accordo con Hamas, Israele si era convinto che i problemi più urgenti e gravi fossero in Cisgiordania. Lì infatti non mancavano le tensioni per via dell’agire provocatorio dei coloni che spesso sfociava in frequenti scontri con la popolazione locale. Dal 7 Ottobre si sono contati 1.300 attacchi da parte dei coloni. Benché più volte condannato, questo movimento di colonizzazione non accennava a diminuire: negli anni ‘90 si trattava di poco meno di 70 mila persone, oggi si è intorno alle 650 mila.

Similmente ai loro leader Itamar Ben Gvir e Bezalel Smotrich, questi coloni sono ultra-nazionalisti, fanaticamente religiosi e per principio contrari all’idea di uno Stato palestinese: la loro fede imponeva di credere in un ritorno alla Grande Israele che avrebbe dovuto inglobare tutto l’attuale territorio di Cisgiordania, il cui nome biblico era Giudea e Samaria. Su questa faccenda il premier Netanyahu si era sempre mostrato più discreto, ma penso sia lui stesso fautore della realtà di una Grande Israele.

Questo sogno li vede favorevoli all’espulsione della popolazione palestinese, la cui vita veniva intanto resa molto difficile non solo da questo brulicare di nuovi insediamenti, ma anche dalla costruzione di un insieme di strade che solo i coloni possono percorrere e che di conseguenza li tagliava fuori da molti percorsi.

Questa situazione appena descritta aiuta a capire come mai Israele si trovasse così sguarnita e distratta al confine con Gaza: per Gerusalemme la precedenza andava tutta alla Cisgiordania. Un grande rischio era stato sottovalutato consentendo così all’antisemitismo islamico di esplodere in tutta la sua ferocia. Vi sarà prima o poi un’inchiesta per stabilire la dinamica e le scelte che hanno portato a quella tragedia. Ad oggi continuano le operazioni ed i bombardamenti a Gaza, le cui perdite civili sono inaccettabili tanto per le masse arabe che per i loro governi. Le truppe israeliane effettuano ancora i loro rastrellamenti in Cisgiordania dove da entrambe le parti continuano ad aumentare le vittime. In Israele la protesta non demorde, Netanyahu non cede e le trattative sono ad un punto morto.

Alcune considerazioni per chiudere:  Come il lettore avrà potuto vedere, dal momento che è questo scritto è stato iniziato le cose di molto non sono cambiate. Con la fine dell’estate abbiamo terminato il viaggio e lascerò il lettore con la notizia che nella giornata dell’8 Settembre sono state uccise tre guardie di frontiera israeliane al punto di transito del ponte Allenby al confine giordano. L’assalitore è stato immediatamente abbattuto.

Nel fare le condoglianze ai parenti delle vittime, il premier Netanyahu ha detto di non farsi illusioni, che si trattava di terroristi spregevoli “che vogliono ucciderci tutti”, senza far distinzioni tra chi è di destra o di sinistra, laico o religioso, ebreo o non ebreo.

Il giorno dopo Israele attaccava in Siria nei pressi di Hama un centro di produzione militare gestito dai Guardiani della Rivoluzione. Le prime notizie parlavano di almeno venti morti. Vive proteste da parte di Tehran. Gerusalemme non conferma né smentisce. L’11 Settembre veniva colpito a Khan Yunis un angolo di territorio che aveva copertura umanitaria. Secondo le Forze armate, sul luogo del profondo cratere si nascondeva un centro di comando di Hamas. Le prime vittime accertate erano 19. Egitto e Turchia parlavano immediatamente di “un orrendo massacro”, mentre dal canto suo il Segretario Generale dell’Onu deplorava che fosse stato colpito un luogo destinato ad area umanitaria.

Dall’inizio della guerra si erano susseguiti nella Striscia 16 successivi ordini di evacuazione riguardanti l’80% della popolazione civile, che si dichiara oggi stremata ed afferma di non poterne più. Dal centro medico di Hamas giungeva la notizia che i morti a Gaza avevano superato di poco le 41 mila unità. Tra le fila dell’esercito israeliano si parla invece di oltre 700 soldati uccisi. Mentre il ministro della Difesa Gallant conferma di voler chiudere l’intera faccenda, un comunicato delle Forze armate affermava che in caso di un bersaglio di grande importanza per distruggerlo erano disposte ad accettare fino a 100 vittime.

Riguardo le operazioni in Cisgiordania, gli Stati Uniti continuano a mostrarsi piuttosto prudenti pur accennando alla possibilità di un piano insurrezionale. Per l’esercito israeliano resta un’operazione di ampio respiro decisa per sloggiare e possibilmente scardinare quei gruppi armati palestinesi che vi si nascondono. Passando al governo, vi è chi sospetta che la sua parte più radicale, che ne è anche la stampella, sia decisa a provocarvi tanti disordini da causarne l’annessione.

Ad indicare i riflessi di questo conflitto, le ultime elezioni in Giordania che hanno mostrato un risultato senza precedenti per un partito islamico. Nel parlamento agli eletti sono riservati 41 seggi, la stragrande maggioranza dei quali è andata al Fronte di Azione Islamica, espressione politica locale dei Fratelli Musulmani, che ne ha ottenuti 31. Va comunque sottolineato che l’astensionismo è stato dei più forti in quanto solo un elettore su tre si è recato a votare. Anche in questo caso non si può che vedere un ulteriore effetto dello scombussolamento e delle difficoltà create da questo conflitto. La popolazione è preoccupata dal suo prolungarsi e dalle gravi conseguenze sull’economia: senza andare lontano basti pensare che il 14% del reddito nazionale viene dal turismo. Per chiudere, aggiungerò che poco meno della metà della popolazione giordana è di origine palestinese.

Due parole finali sull’Iran. Dai servizi segreti francesi la notizia di un’operazione dal nome “Marco Polo”. Sarebbe diretta dal regime allo scopo di uccidere ebrei in Francia ed in Germania assoldando criminali comuni di origine araba. Da Washington, Londra e Parigi l’accusa di aver fornito missili a corto raggio da impiegare contro l’Ucraina: immediate nuove sanzioni. Tehran nega e non nasconde il proprio rancore.

Nel suo primo viaggio all’estero, il neoeletto presidente Masud Pezeshkian si è recato  in Iraq. A Baghdad ha annunciato la firma di 14 accordi destinati a rafforzare la cooperazione tra i due Paesi. Al suo cospetto, il premier iracheno al-Sudani ha confermato di rifiutare un qualsiasi ampliamento del conflitto nella regione.

Conclusione:  Nel corso di questa estate si è potuto vedere come questo conflitto abbia gradualmente assunto una dimensione internazionale, andando ben al di là della questione israelo-palestinese e si è visto come alcune nazioni, malgrado le differenze, si siano trovate insieme per indebolire l’Occidente democratico ed allargare le loro aree di influenza.

Accanto a loro, si è anche vista la conferma che nella regione vi sono paesi come l’Arabia Saudita che ambiscono ad agire a tutto campo ed in ogni scacchiere per garantirsi un ruolo che sia loro, tenendo anche conto di quelli che sono i propri vantaggi ed interessi. Si tratta di politiche estere disinvolte giustificate in parte dal fatto che l’Occidente venga visto come inaffidabile ed incerto.

Con un’Europa incapace di darsi una dimensione internazionale e gli Stati Uniti che non sembrano in grado di risolvere il caos in Medio Oriente, penso che per risolvere tutta la faccenda sia necessario andare oltre l’interrotto negoziato tra Israele ed Arabia Saudita. Soprattutto in questo caso serve giungere ad un accordo comprensivo senza il quale non può esservi nella regione un paese tranquillo: solo in questo modo si otterranno quella pace e quella collaborazione che impediscano la creazione di futuri nuclei di popoli imbevuti di odio e di rancore.

Le vicende del passato insegnano che in politica estera o si guarda lontano o non si fa nulla: vincitore sarà chi guarda all’avvenire tenendo anche conto che le scelte di politica estera non sono atti unicamente diplomatici ma anche scelte fondamentali di civiltà e di vita. Questo conflitto, così come quello ucraino, ha ampiamente dimostrato che né la forza né la minaccia della forza possono essere strumenti di politica estera. Una guerra si può iniziare e poi anche vincere, ma in seguito ci vuole una strategia politica. I tempi sono a questo punto più che maturi per un’azione diplomatica di ampio respiro che guardi oltre alla pluridecennale disputa tra israeliani e palestinesi e metta mano all’intera regione.

 Edoardo Almagià

 

 

P.S. Era stato reso noto il caso di un bambino di 10 mesi colpito dalla poliomielite. Era da oltre 25 anni che non si verificava un caso simile nella Striscia di Gaza. A spiegarlo le pessime condizioni igieniche causate da quasi 11 mesi di guerra. L’Onu interveniva chiedendo alle parti una tregua umanitaria di una settimana per procedere alla vaccinazione dei 650 mila bambini che vivono nella Striscia. Un accordo è finalmente stato raggiunto nell’ultimo giorno del mese di Agosto: questo prevedeva due cicli di vaccinazioni ognuno di tre giorni da spalmare su un mese. Malgrado le difficoltà inerenti nel portare a termine il programma, alla fine si riuscirà a farlo. Si tratta finora dell’unico accordo raggiunto. Non resta che sperare si possa presto andare oltre.

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