Edoardo Almagià esamina la situazione che si è venuta a creare nel Medioriente a seguito degli sviluppi del conflitto in corso tra Israele e i palestinesi a seguito dell’attacco terroristico di Hamas del 7 ottobre del 2023.
Si tratta di una lunga ricostruzione di antiche, nuove e nuovissime vicende che possono prendere strade finora sconosciute ed ulteriormente drammatiche. Nell’attesa che la diplomazia riprenda il sopravvento in una regione che non trova pace da troppo tempo.
Tra cronaca e analisi presentiamo questa ampia nota in tre parti per renderla meglio fruibile. Di seguito la prima.
Prologo: Ho voluto seguire il più dettagliatamente possibile gli eventi di questi ultimi due mesi per rendere l’eventuale lettore meglio informato e perciò più partecipe dell’attuale dramma in Medio Oriente.
Di fronte all’evidenza dei fatti sono certo si potrà rendere conto dell’urgenza di un’azione diplomatica di vasta portata ed al di fuori di schemi che reputo ormai passati. La buona diplomazia non getta mai la spugna ed è bene ricordare che politica estera e diplomazia nel corso della Storia hanno risolto più casi intricati di quanti se ne vogliano ricordare.
In un clima di continue azioni nella Striscia di Gaza da parte di Israele e di accorati appelli del Segretario di Stato Blinken, il ministro della Difesa israeliano Gallant dichiarava che le Forze armate avevano ucciso o ferito il 60% dei combattenti di Hamas. Quest’ultima annunciava che a metà del decimo mese di guerra le vittime tra si avvicinavano alle 39 mila. Ultima ad essere colpita, una scuola: 44 i morti. Il premier Netanyahu annunciava di voler aumentare la pressione su Hamas. Il presidente turco Erdogan minacciava nel frattempo un attacco in caso di aggravamento della situazione in Libano.
Dallo Yemen gli Houthi rivendicavano un’azione militare contro Tel Aviv che aveva fatto una vittima: il drone era passato inosservato. In risposta, veniva colpito l’importante porto di Hodeida con la distruzione di una centrale elettrica e depositi di carburante. Tre i morti. L’onnipresente Gallant, nella sua lugubre tenuta nera che spesso indossa, aveva comunicato che dal territorio yemenita erano partiti oltre 200 attacchi e che vi sarebbe stata una risposta ogni qual volta vi fosse stata una vittima.
In questo stesso periodo la Knesset adottava una risoluzione contro la creazione di uno Stato Palestinese. Pochi giorni prima si erano svolte in Siria le quinte elezioni dopo la guerra civile scoppiata nel 2011. Lo scrutinio è avvenuto nelle aree controllate dal governo di Assad e si è votato come se nulla fosse in un contesto nel quale il Parlamento non conterà nulla. La situazione economica è molto difficile e la solidità dello Stato è garantita solo dalla presenza militare russa da un lato e dall’Iran, tramite Hezbollah e la presenza di milizie dei Guardiani della Rivoluzione, dall’altro.
Mentre continuavano a bruciare le installazioni energetiche di Hodeida, il 21 luglio gli Houthi annunciavano che avrebbero proseguito i loro attacchi contro Israele e lanciavano subito alcuni missili in direzione di Eilat sul Mar Rosso. Netanyahu confermava la sua visita negli Stati Uniti dove sembrava disponibile a trovare un accordo con Hamas su Gaza e la liberazione degli ostaggi.
Il premier israeliano a Washington: Il giorno seguente Netanyahu sbarcava a Washington per incontrarsi col presidente Biden. L’incontro successivo si sarebbe poi svolto con il suo vice Kamala Harris ed infine forse anche con Trump. In mezzo, un intervento al Congresso a camere riunite.
Dopo la rinuncia alla candidatura del presidente americano egli sapeva trovarsi di fronte ad una situazione inedita, considerando soprattutto che negli ultimi tempi i suoi rapporti con la Casa Bianca, già non buoni con Obama, erano sensibilmente peggiorati.
Al momento dell’incontro i due si erano salutati con un sorriso, ma senza calore. Il premier israeliano si è voluto congratulare con Biden per il buon lavoro svolto e per la solidità dei suoi rapporti con Israele. Tra di loro i rapporti non erano certo stati facili, con il presidente americano che cercava di dare consigli e dettare prudenza ed il premier invece che non perdeva l’occasione per ignorarlo. Le loro vedute erano diverse, se non a volte diametralmente opposte. Biden però ha sempre finito col mostrarsi amico e fedele alleato di Israele. In risposta, succedeva spesso che Netanyahu se la prendesse con lui, il che non faceva che aumentare le tensioni fra i due personaggi. Restava ora tutta da vedere quale sarebbe stata la natura di questi rapporti negli ultimi sei mesi della sua presidenza.
Non sarei stupito se potessero addirittura volgere al peggio nel caso Biden continuasse a pressarlo con insistenza in favore di un accordo. Che lo faccia è inevitabile, così come inevitabile è che il premier israeliano continuerà a puntare i piedi ed agire in vista dell’eliminazione di Hamas. La Casa Bianca aveva annunciato la possibilità di un accordo entro breve. Restava da vedere come avrebbe risposto Israele, quale leadership avrebbe mostrato Netanyahu e a quali compromessi sarebbe stato disponibile. Riguardo la sua scelta in favore della Harris, Biden gli aveva anche detto che meglio si accordava alla necessità di trovare nuove e più giovani voci.
Ha fatto poi seguito l’appuntamento con la Harris. Tutto formalità e buone maniere, ma anche qui senza grande calore. Sulla questione del Medio Oriente, la vicepresidente ha lasciato intendere che avrebbe seguito una linea di continuità pur non restando indifferente alla tragedia della popolazione civile a Gaza. Sarebbe stata contraria ad ogni manifestazione di antisemitismo e si sarebbe assicurata che Israele possa sempre essere in grado di difendersi tenendo però conto di ogni sofferenza umana.
Il premier si è successivamente recato al Congresso dove per protesta una settantina di deputati del Partito Democratico avevano annunciato che non si sarebbero presentati in aula. La stessa Harris era assente mentre Rashida Tlaib, rappresentante della sinistra democratica, esponeva un cartello con su scritto “criminale di guerra”.
Netanyahu dava inizio al suo discorso ringraziando le due Camere per l’ospitalità e l’accoglienza. Si trattava per lui del quarto invito a parlare di fronte al Congresso, opportunità mai concessa a nessun altro leader. Anche se costantemente interrotto dagli applausi dei repubblicani, in tutta franchezza non è stato un bel discorso: settario, privo di sfumature, poco aderente alla realtà e concepito per un pubblico di eletti di estrema destra. Farcito di affermazioni patriottiche scontate, si è trattato in breve di un discorso da comizio politico oltre che di marketing. Il premier israeliano si è limitato a dichiarare che continuerà la guerra, senza neppure pronunciare una parola su come uscire dall’attuale spirale di violenza. Nessuna promessa per il futuro, zero visione per l’avvenire. Nulla.
Il premier ha voluto aprire il suo intervento sottolineando come il mondo sia giunto ad un punto di non ritorno. Non si era di fronte ad uno scontro tra civiltà, ma di un conflitto tra barbarie e civiltà, tra chi glorificava la morte e chi esaltava la vita. Stati Uniti ed Israele dovevano restare uniti per veder trionfare la civiltà: “Quando uniti, noi vinciamo e loro perdono”.
Per meglio evidenziare la natura del dramma vissuto dal suo paese, Netanyahu ha voluto paragonare il 7 ottobre con la mattina del 7 dicembre 1941, data dell’attacco giapponese a Pearl Harbor, che Roosevelt definì “Il giorno dell’infamia”. Ha aggiunto che quel paradiso che è la terra di Israele si è improvvisamente trasformato in un inferno quando tremila assassini lo hanno invaso, uccidendo persone di 41 paesi e trascinandosi dietro 255 ostaggi di ogni età e sesso. Ha poi parlato di loro, del dolore delle famiglie e sottolineato con piglio deciso che non avrebbe ceduto fino a che non sarebbero tornati tutti a casa. Continuando, ha denunciato l’asse del terrore guidato dall’Iran ed elogiato il presidente Biden per il suo appoggio. Subito dopo arrivava quella che per me è stata una brutta caduta di stile.
Strumentalizzando la presenza di alcuni reduci scelti con cura per evidenziare alcuni punti specifici del suo discorso, egli iniziava lodandone il coraggio. Si trattava nel primo caso di un soldato musulmano di origini beduine recatosi in prima linea per combattere al fianco di ebrei, drusi, cristiani ed altre etnie. Il secondo era un carrista al quale una granata aveva fatto perdere l’occhio sinistro ed il braccio destro. Appartenente ad una famiglia di immigrati etiopi, il terzo aveva corso una distanza di 12 km per andare al fronte e poi uccidere molti terroristi, oltre a salvare parecchie vite. Il quarto infine, perduta una gamba aveva continuato a battersi.
Per concludere il quadro, ha fatto intervenire un sopravvissuto all’Olocausto il cui figlio maggiore, dal passato di veterano, si era offerto volontario per tornare a combattere e finire dilaniato da una mina all’interno di una galleria. A questo padre il premier aveva chiesto di alzarsi per onorare il sacrificio del figlio.
“Ecco – ha esclamato il premier indicandoli – i soldati di Israele, temerari e senza paura”. Di questi però, nessuno sorrideva o si mostrava fiero: avevano tutti un’aria sommessa ed addolorata, esprimendo più sofferenza e distacco che prodezza marziale. A guardarli ho provato gran pena e tanta tenerezza e sono certo che se non fosse stato loro richiesto non sarebbero mai venuti fino lì per mettersi in mostra come esempio di valore. Presente in aula anche uno degli ostaggi, una giovane donna dall’aria assente, quasi inebetita, moralmente stordita ed incapace di esprimere la minima gioia. Non vi era dubbio che ognuna di queste persone era tornata a casa traumatizzata e con profonde lacerazioni sia nel corpo che nell’anima: nulla di cui gioire ed essere fieri, solo un gruppo di vite spezzate.
Dopo tutto ciò che avevano passato, non dovevano essere esposti per fare da sfondo a Netanyahu che ha solo dato prova di scarsa sensibilità e ancor meno tatto. Erano persone che avevano semplicemente fatto il proprio dovere e che si trovavano adesso vittime della tragedia della guerra con impresso sul corpo lo stigma della violenza. Menomati fisicamente e psicologicamente, dovranno d’ora in poi dare un senso alla loro vita.
Cosa vi è di tanto bello, di tanto degno da essere messo in mostra? Non ha poi esitato a battere il tasto dell’Olocausto per sottolineare che è proprio perché esiste uno Stato di Israele che il suo popolo non è più disarmato di fronte al nemico. Su quest’ultima affermazione gli do ragione, ma il suo è stato un discorso ideologico e lontano dalla realtà, una visione esaltata del corpo, della nazione e della guerra. Parole incoscienti che traducono il cinismo della politica. E’ questo il prezzo che si vuol continuare a pagare? Sarebbe tempo di guardare al futuro, agire politicamente e non tenere comizi.
Per lui una cosa è certa: mai più vi sarà un 7 ottobre. Da lì passava a denunciare il flagello dell’antisemitismo, per poi indignarsi di fronte al fatto che si voleva far passare Israele per un criminale di guerra: “Israele si difenderà sempre e mai avrà le mani legate”. Per accarezzare il sentimento nazionale di buona parte dell’aula, il premier descriveva con enfasi il paese dei suoi ospiti come la più grande potenza mondiale ed il protettore della civiltà occidentale. Assecondando l’umore dei repubblicani presenti, egli sottolineava come il vero nemico fosse l’Iran ed Israele in questa lotta era solo un mezzo. Per concludere, ha lanciato l’allarme che per sconfiggere gli Stati Uniti Teheran doveva innanzitutto impossessarsi del Medio Oriente.
Per meglio perorare la sua causa e convincere i suoi ospiti, Netanyahu ha avuto cura di sottolineare come i nemici di Israele fossero quelli degli Stati Uniti, che la guerra di Israele è la stessa di quella degli americani e che la sua vittoria sarà la loro. Ha omaggiato Trump, per chiedere in seguito chiesto lo sblocco degli aiuti militari e l’invio di più armi. Tutti insieme in piedi, i Repubblicani hanno riempito l’aula di applausi.
Questo intervento a Camere riunite è stato a dir poco unilaterale ma cos’altro aspettarsi dal capo del governo più a destra della storia di Israele? Cosa ha fatto questo premier da quando è al potere, se non dire che non vi può essere pace e neppure uno Stato palestinese? La sola proposta che sembra offrire è quella di vivere in uno stato di allerta permanente.
Nel frattempo, all’esterno del Congresso migliaia di dimostranti erano scesi in strada per protestare contro i massacri di Gaza. Di questi, un folto gruppo si era radunato di fronte al Campidoglio tentando di entrarvi: è subito intervenuta la polizia che non ha esitato a fare uso di gas urticanti. Grande manifestazione anche di fronte alla stazione ferroviaria della capitale, dove un gruppo di arrabbiati manifestanti aveva ammainato una bandiera americana dandole poi fuoco dopo averla gettata a terra. Al suo posto veniva issata quella palestinese.
Il 26 Luglio il premier israeliano si recava in visita a Mar-a-lago, la grande residenza di Trump in Florida. Insieme hanno affrontato vari temi e criticato la posizione della Harris riguardo i civili di Gaza. Nel corso della visita Trump gli aveva regalato uno di quei ridicoli cappellini con visiera così in voga tra le classi medie americane con su scritto “Fino alla vittoria finale”. A quale vittoria si riferiva, non lo so: a quella sua per la Casa Bianca o a quella di Netanyahu a Gaza? Forse ad entrambe.
Resta da chiedersi a questo punto cosa sia andato a fare Netanyahu negli Stati Uniti. Con tutta probabilità vi si era recato per darsi l’opportunità di fiutare l’aria e capire se vi sarebbero stati cambiamenti nella politica americana nei confronti di Israele. Avrà certamente colto il messaggio che vi sarebbe stata continuità nell’azione della Harris, anche se quest’ultima si sarebbe mostrata più attenta alle sofferenza della popolazione civile di Gaza. Doveva infatti assicurarsi l’appoggio della componente di sinistra del Partito Democratico ed il consenso della comunità musulmana, entrambe piuttosto critiche nei confronti dell’azione di Biden.
Per il premier si è trattato anche anche di assicurarsi la propria sopravvivenza politica: mai come oggi Israele è stato tanto diviso al punto che ogni settimana si svolgevano manifestazioni contro di lui e che le stesse Forze armate non gli risparmiavano critiche. Ad aumentare le sue pene, anche il trovarsi sotto pressione da parte del suo governo i cui elementi più radicali ed intransigenti non intendevano fare passi indietro né sulle operazioni militari in corso e né sulla questione palestinese.
Il rientro frettoloso in patria ed eventi successivi: All’improvvisa notizia di un attacco missilistico su un villaggio druso nel Golan, il 27 luglio Netanyahu decideva di interrompere la sua visita negli Stati Uniti, cosa mai avvenuta in precedenza. Dei razzi provenienti dal Libano avevano colpito un campo di calcio nel corso di una partita tra adolescenti facendo 12 vittime, tutte tra i 10 e i 16 anni.
Le alture del Golan erano state occupate da Israele nel 1967 a seguito della Guerra dei Sei Giorni per poi passare dal 1981 sotto la sua giurisdizione. Quest’area è di grande importanza non solo dal punto di vista strategico ma anche per l’approvvigionamento idrico dello Stato Ebraico. In tutta questa faccenda, il paradosso è che gli abitanti del centro colpito non si sentivano tanto israeliani quanto piuttosto siriani.
Per Israele era stato oltrepassato ogni limite e non perdeva tempo per accusare Hezbollah di essere l’autore della strage. Il gruppo lo aveva subito negato. Secondo fonti militari israeliane, alcuni dei frammenti di razzo esaminati erano di produzione iraniana e gli unici a possedere queste armi erano gli Hezbollah. Rientrato in patria, il premier Netanyahu aveva minacciato pesanti ritorsioni, mentre dagli Stati Uniti il Segretario di Stato Blinken dichiarava di volere evitare ad ogni costo un allargamento del conflitto.
Con gran sorpresa, nella giornata di Martedì 30 luglio all’interno di un quartiere popolare sciita a sud di Beirut, in un improvviso attacco mirato un drone israeliano colpiva il piano di un edificio nel quale si stava svolgendo una riunione dell’ufficio politico di Hezbollah. Nell’attacco restava ucciso Fuad Shukr, braccio destro del leader dell’organizzazione Hassan Nasrallah e capo della sua ala militare. Le vittime sarebbero state in tutto tre ed i feriti una decina.
Shukr era considerato il responsabile del lancio del razzo che aveva colpito il villaggio druso nel Golan e se da un lato Israele ne annunciava la morte, dall’altro Hezbollah negava.
Un secondo attacco israeliano: Il giorno successivo all’attacco di Beirut, del tutto inaspettata giungeva la notizia di un attentato a Tehran in una residenza appartenente ai Guardiani della Rivoluzione nella quale era ospite il capo politico di Hamas, Ismael Haniyeh. Ucciso sul colpo per il suo coinvolgimento nei fatti del 7 ottobre, era ormai da tempo nel mirino dei servizi israeliani. Assieme a lui è rimasta vittima una guardia del corpo. Nell’appartamento adiacente si trovava anche un capo della Jihad islamica che però era rimasto illeso.
Haniyeh aveva 62 anni ed oltre che in Qatar aveva anche passato lunghi periodi in Turchia. In precedenza si era scontrato con il capo dell’ANP Abu Abbas ed era stato tra i responsabili del colpo di Stato a Gaza del 2007. Dopo l’uccisione di un suo stretto collaboratore a Beirut era il volto politico di Hamas.
Era urgente trovargli un sostituto in grado di essere interlocutore privilegiato di Egitto e Qatar. Si facevano i nomi di Moussa Abu Marzouk, di tendenze relativamente moderate, dell’attuale inviato al Cairo Khalil al-Hayya ed infine di Khaled Meshaal, importante esponente del movimento e capo del suo ufficio politico dal 1996 al 2017. Quest’ultimo era però sgradito a Tehran per essersi schierato in favore della rivolta siriana del 2011 diretta contro il suo alleato Assad. In quanto a Gaza, l’uomo forte di Hamas restava Yahya Sinwar, capo della sua ala militare. Fino a quel momento erano stati colpiti già 4 dei suoi 6 dirigenti coinvolti nella pianificazione dell’attacco del 7 ottobre.
A seguito di quella giornata Israele aveva deciso di eliminarlo. Haniyeh era sbarcato nella capitale iraniana per presenziare all’investitura del nuovo presidente Pezeshkian, entrato in carica tre giorni prima. Nel suo discorso inaugurale, piuttosto duro, egli aveva difeso la causa palestinese e denunciato Israele e Stati Uniti.
E’ difficile pensare che questo attacco potesse restare impunito dato che era nella logica delle cose che la Repubblica Islamica dovesse preparare una risposta. Il regime si era trovato in grande imbarazzo per aver subito un’umiliazione che toccava la sicurezza e l’immagine del Paese: con questa azione era evidente a tutti come i servizi israeliani fossero in grado di ottenere ogni tipo di informazione nel pieno della capitale iraniana ed avere poi le capacità di operare a piacimento. Sarebbe stato perciò necessario agire in qualche modo, se non almeno per inviare un segnale che l’Iran non era disposto a subire altri attacchi. Il problema sarebbe stato quello di come dosare la risposta.
Qualunque cosa il regime avesse deciso, è indispensabile capire che non intendeva compromettere lo sviluppo del suo programma nucleare e neppure la sicurezza del paese. Malgrado la retorica d’obbligo, restava prudente sapendo di non poter andare oltre certi limiti senza il rischio di incendiare l’intera regione.
Tornando al passato e prendendo in considerazione simili azioni condotte dallo Stato Ebraico in territorio iraniano, è possibile accorgersi che non si tratta di nulla di nuovo: a più riprese erano stati infatti presi di mira ed uccisi degli scienziati nucleari. Ricordo ancora di aver visto in più di un luogo le loro effigi con l’attribuzione di martiri. La situazione questa volta era però diversa in quanto la vittima non era solo un ospite, ma anche un amico del regime.
Da considerarsi erano le eventuali reazioni di Hezbollah a seguito della morte avvenuta il giorno prima a Beirut di Fuad Shukr. Se questi attentati non potevano restare senza risposta è anche vero che si era in guerra e, che piaccia o no, in guerra la gente muore. Si trattava in fondo di un morto come un altro e nessuno aveva intenzione di andare troppo oltre causando un allargamento del conflitto. Non restava che attendere i funerali delle vittime. Poi si vedrà.
Entrambi questi episodi avevano suscitato profonda indignazione nel mondo islamico tanto da provocare una serie di manifestazioni in Iran, Turchia, Marocco ed Iraq. Di fronte a questi attacchi Cina e Russia avevano espresso la loro disapprovazione, avvisando che gli autori avrebbero dovuto essere coscienti del pericolo di queste loro azioni. Più sul pezzo, il ministro degli Esteri del Qatar faceva sapere che è difficile cercare un accordo quando una parte uccide il negoziatore dell’altra.
Il presidente dell’Autorità Nazionale Palestinese era scattato per denunciare il “vile attentato”, mentre Hamas descriveva l’evento come “un atto vile che non resterà impunito”, aggiungendo che Haniyeh era rimasto “ucciso da un’azione sionista a Teheran”. Inutile a questo punto parlare di negoziati e di cessate il fuoco. Durissimo il messaggio del nuovo presidente iraniano, che benché visto come un moderato, non poteva fare diversamente in quanto l’attacco aveva messo in difficoltà la sua fazione.
Da parte sua, parlando di “terrorismo di Stato” la Guida Suprema Alì Khamenei minacciava Israele di una “risposta dura”. Dal regime giungeva anche l’avviso che le forze dell’Asse della Resistenza avrebbero preparato una risposta. Intanto faceva il giro del mondo la dichiarazione che “l’entità sionista non ha ottenuto i risultati sperati”. Dallo Yemen, infine, arrivava la voce degli Houthi che dichiarava necessaria una risposta militare.
Israele non smentiva e non confermava. Vi è chi potrebbe chiedersi perché l’attentato sia stato compiuto a Teheran. La risposta è semplice: è vero che Haniyeh abitava regolarmente a Doha, ma è altrettanto vero che tra Israele e Qatar i rapporti erano numerosi e che parte dei negoziati si svolgeva lì. Questo obbiettivo era dunque da escludere, così come da escludere era la Turchia, paese dove la vittima aveva vissuto qualche tempo e che era per di più anche membro della Nato. Più comprensibile ed opportuno colpire in Iran.
Quale futuro per i negoziati?: Da Singapore, un Blinken dall’aria affaticata faceva sapere che gli Stati Uniti non erano stati informati dell’attacco e neppure ne erano coinvolti. Imperativo restava dunque adoperarsi per abbassare la tensione e trovare un accordo. Dal canto suo Kamala Harris non vi vedeva nulla di buono in quanto aveva necessità di riappacificarsi con la sinistra democratica ed ereditare il dossier di Gaza senza trovarsi costretta a pagarne l’impopolarità. L’attentato era inoltre avvenuto mentre dal Dipartimento di Stato giungevano voci sulla possibilità di un accordo.
A questo punto vi era chi pensava che a seguito di ciò Israele potesse avere ottenuto un vantaggio: l’uccisione di Haniyeh avrebbe infatti definitivamente affossato ogni possibilità di ripresa di dialogo tra Washington e Teheran. Devo dire che su questo avevo forti dubbi, perché quando lo avrebbero reputato necessario i due governi avrebbero trovato modo di parlare tra loro. I più pessimisti ritenevano che con un Netanyahu sempre più appiattito sulle posizioni dell’estrema destra ed un Israele che aveva colpito prima Hamas a Gaza, poi Hezbollah in Libano e per finire i vertici di Hamas in Iran, fosse stata messa la parola fine alla possibilità di un negoziato.
Altri, senza torto, pensavano che in Medio Oriente il solo modo per ottenere rispetto fosse quello di usare la forza: è più facile trattare con un nemico indebolito. Vero, ma non scontato. Sarebbe forse più utile in questo caso guardare all’aspetto psicologico della questione, includendo la storia, la cultura e la disposizione d’animo dell’avversario. Vi potrebbe essere un impatto sul tentativo di giungere ad un accordo se si considera che gli attentati erano stati preparati dal Mossad che allo stesso tempo sedeva al tavolo delle trattative? Restava sempre chi temeva una fuga in avanti da parte dei protagonisti.
La situazione era certo grave ma non è possibile fare a meno di riprendere i negoziati. Impensabile l’alternativa. Per fare una pace servono delle idee. Per ora non se ne vedevano molte ma restavo sempre dell’opinione che è grazie a questa crisi che non faceva che prolungarsi che si sarebbe potuto finalmente cogliere l’opportunità di risolvere la questione.
Sarebbe necessario realizzare che vi sono dei periodi nei quali, una volta posti, certi problemi trovano necessariamente la loro soluzione. Penso che sulla questione palestinese ci si possa essere vicini ed a questo punto o si inventa e si disegna l’avvenire o lo si subisce. Per chi si interessa di diplomazia questa è una sfida del più grande interesse. Si tratta infatti di trovare un modo per mettere d’accordo due nemici, ognuno dei quali determinato ad annientare l’altro e mettere fine ad una situazione che le autocrazie sfruttano in quella che è una loro guerra aperta contro l’Occidente e le democrazie liberali.
A rendere tutto più difficile, le ideologie, le necessità, i condizionamenti psicologici e le ineludibili prese di posizione di ogni parte, ciascuna delle quali ha l’imperativo di esaltare le proprie ragioni, mostrare le sue capacità di usare la forza e rispondere adeguatamente all’avversario. Nessuno se la sente di compiere quel necessario passo indietro per aprire la porta ad una trattativa. Indicativo il caso di Israele: non può fare a meno di evidenziare la sua capacità di deterrenza per fugare il dubbio che chiunque possa impunemente entrare ed uscire dal suo territorio lasciandosi appresso una scia di sangue senza poi pagarne le conseguenze. E’ costretto a far capire a tutti di poter colpire in ogni luogo ed a qualsiasi livello, dal più basso ai vertici. Non da meno Hamas, il cui obiettivo è la cancellazione di Israele dal Giordano al Mediterraneo con la volontà di sterminare un intero popolo.
Il colpo subito da Hamas è stato durissimo, come grave ed imbarazzante quello inferto ad Hezbollah a Beirut. Grande anche l’umiliazione subita da Teheran. Ciò malgrado, non penso che i vertici palestinesi cambieranno i loro obbiettivi nel negoziare con Israele. In quanto agli altri due protagonisti, nessuno di loro ha interesse ad aggravare il conflitto. E’ possibile che nel breve vi possa essere un’interruzione delle trattative, ma non potrà che essere breve. Il problema di Gaza non sparirà, come neppure quello del dramma della sua popolazione civile, né tantomeno quello della causa palestinese e del diritto di Israele ad esistere. Se le trattative venissero interrotte ne risulterebbe l’impossibilità pratica di andare avanti ed in questo caso, per rappresaglia, a pagarne il prezzo sarebbero gli ostaggi. Paradossalmente, da questa situazione Israele si è trovato contemporaneamente più forte e più debole. (Segue)
Edoardo Almagià