Corrono sempre più voci sulla possibilità che a breve la Corte penale internazionale possa mettere sotto accusa, e magari diramare un ordine d’arresto per Benjamin Netanyahu, il suo Ministro della Difesa,Aluf Yoav Gallant, e il Capo di stato maggiore dell’esercito israeliano, Herzi Halevi. Una notizia che, quando e se confermata, farà storia. E costringerà molti paesi a rivedere la politica di sostegno e di fornitura delle armi allo Stato Ebraico per evitare di finire coinvolte dall’effetto domino che situazioni del genere si determinano quando di mezzo ci sono rilevanti violazioni del diritto internazionale a danno di intere popolazioni.
Già gli Stati Uniti hanno dovuto aumentare le loro pressioni su Netanyahu perché rispettasse i diritti umani a Gaza e in Cisgiordania dopo il primo intervento della Corte e molti paesi, compresa l’Italia, sono corsi a far presente di aver cessato la fornitura di armamenti allo Stato ebraico. Cosa, però, da alcuni smentita, soprattutto in riferimento alla data di quando in effetti sarebbe avvenuta la sospensione delle consegne.
Già è bastato, però, che queste voci cominciassero a circolare perché molte cancellerie cominciassero a valutare i cambiamenti che una situazione determinerebbe e a spingere per un aumento delle pressioni sui vertici israeliani per un deciso cambia di atteggiamento sia a Gaza, sia nella Cisgiordania. Si sa che non sono mai mancate pure tra i vertici dell’Esercito d’Israele e tra quelli del Mossad molte critiche a quella che nella West Bank, la Cisgiordania appunto, è stato definita una politica di eccessiva violenza, di segregazione raziale e di favoreggiamento dell’attività criminale di alcuni gruppi di coloni cui si è lasciato spadroneggiare, incendiare case, attaccare villaggi palestinesi spalleggiati dai militari d’Israele. Vedremo come andrà a finire.
Quasi in contemporanea da più parti si sostiene che, al grido che i soldi non hanno odore, si fanno sempre più precisi i resoconti sulla preparazione di grandi gruppi finanziari ed edili per mettere le mani sulla inevitabile opera di ricostruzione che dovrà essere organizzata a Gaza, praticamente rasa al suolo a seguito dei bombardamenti e dell’intervento dei carri armati con la Stella di davide in risposta all’attacco terroristico dei Hamas del 7 ottobre 2023.
The New York Times se nìè uscito con questo titolo: “Persino con Gaza sotto assedio, alcuni ne immaginano già la ricostruzione”. E il quotidiano americano rivela che alcune agenzie di sviluppo internazionali si sono riunite con rappresentanti di interessi economici del Medio Oriente e urbanisti per tracciare un futuro per quel martoriato territorio.
La cosa avrebbe preso seriamente le mossa lo scorso dicembre, a Londra, dove la riunione avrebbe avuto l’obiettivo di cominciare a ragionare su come trasformare Gaza “da luogo caratterizzato dall’isolamento e dalla povertà in un centro mediterraneo incentrato sul commercio, sul turismo e sull’innovazione, producendo una classe media”. Ovviamente, ma speriamo di no, passando sulle teste di oltre due milioni di palestinesi che sono tuttora “carne da macello” e che … rischiano di restarlo, e speriamo accada presto almeno per quello, anche se non sotto le bombe.