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La A.I. e il voto americano – di Giuseppe Sacco 

Oggi, che in tutto l’Occidente, e sostanzialmente anche in Cina, sembra volgere a conclusione l’era di Internet e dei social media e forse aprirsi quella dell’Intelligenza Artificiale,  Bill Gates potrebbe essere ormai considerato soprattutto un personaggio storico. Eppure é da lui che, nella seconda metà di Ottobre 2024, a due settimane dalle elezioni presidenziali americane, è venuta una sorpresa che ha dato una piccola scossa a quel particolare mondo del business che pesa ed influisce attivamente sulla politica. E’ venuta  un’insolita – ma molto esplicita, significativa,  e probabilmente influente, anche se non clamorosa –  indicazione di voto,

Il fondatore della prima tra le grandi aziende del big tech, che in passato si era sempre astenuto dall’ esprimere una preferenza tra Democratici e Repubblicani, si è infatti schierato a favore di Kemala Harris. Ed ha anche detto di aver dato 50 milioni di dollari a Future Forwards, una fondazione che partecipa alla campagna della candidata democratica

Negli anni più recenti, Bill Gates è stato un forte, anche se molto discreto, sostenitore di Joe Biden, di cui sembra apprezzare le iniziative tendenti ad una rapida re-industrializzazione dell’America, fondata sul reshoring di alcune produzioni – quelle economicamente più strategiche – localizzate negli anni del globalizzazione nei paesi a basso costo del lavoro, così come dalla creazione di impianti americani di importanti imprese estere.

Uno degli uomini più ricchi al mondo, popolarissimo benefattore,  ed un innovatore che ha contribuito a plasmare la società attuale, si è così differenziato dalla maggiore ed anche più visibile parte dei grandi miliardari di Silicon Valley. Molti dei quali, invece, nelle ultime settimane hanno clamorosamente – e talora di maniera addirittura surreale – annunciato il loro sostegno a Donald Trump.

Il modo in cui Bill Gates ha fatto conoscere la propria scelta si distingue dunque radicalmente dalle sparate di Trump sulla deportazione in massa degli immigrati illegali, sparate che hanno spesso dato agli osservatori europei la falsa sensazione che, assieme alla protezione contro i prodotti cinesi, il tema principale della alternativa tra i due partiti americani sia quello dell’immigrazione. Ma si è distinto anche dai tentativi di Kamala Harris di sottolineare la propria origine afroasiatica nella speranza di riassorbire nel voto democratico alcune non trascurabili componenti della minoranze etniche e dell’elettorato progressista, i wokisti, ed anche un po’ anche quello filopalestinese, sconcertato dal comportamento internazionale di Biden nel corso dell’ultimo anno, durante la tragedia mediorientale. Comportamento da cui la Harris , in quanto Vice-Presidente in carica, avrebbe difficoltà a differenziarsi.

L’Intelligenza Generale: un “assalto al cielo”

Microsoft, l’azienda di cui questo imprenditore coraggioso, nonché filantropo equilibrato e responsabile è stato all’origine, è anch’essa tutt’altro che un monumento.  E’ invece in piena attività, ed anche coinvolta nel più  importante progetto di ricerca tecnologica del momento, e che sembra appunto segnare, nel ben e nel male, il passaggio dall’epoca dominata dal computer e dai social media a quella caratterizzata dall’Intelligenza Artificiale. Microsoft  è infatti in prima linea in quel vero e proprio vero e proprio “assalto al cielo” oggi condotto da QpenAI  con la ricerca sulla AGI, l’ Artificial General Intelligence in grado di competere con l’uomo e di sorpassarlo in ogni campo.

Ed è probabilmente per questo motivo che Gates ha ritenuto di dover parlare, e di dover anche spiegare le ragioni di questa sua scelta. Cosa che fatto in maniera con un’affermazione piuttosto grave. Dicendo esplicitamente che quella del prossimo 5 Novembre non può essere considerata una tornata elettorale come le altre. Una valutazione non nuova, venuta anche da attori noti della scena politico-mediatica, spesso però con intenti propagandistici, o accusatorii nei confronti di Trump. Ma che, una volta fatta propria da una personalità come Bill Gates assume una sfumatura anche un po’ preoccupante.

Gates non ha detto cosa glielo faccia pensare. Ma è chiaro che egli si posto l’interrogativo cui nessun osservatore può sfuggire. Egli si è evidentemente chiesto quali siano la grande posta in gioco ed i veri termini delle elezioni del 5 Novembre. Che si tengono in una fase altamente drammatica non solo nel quadro internazionale, ma anche per quello che riguarda l’innegabile sconvolgimento che il progresso tecnologico ha indotto,  e continuerà probabilmente a determinare, negli equilibri tra gruppi e categorie economico sociali della società americana, cosi come tra la società e le sue istituzioni.

Tradizionalmente, negli Stati Uniti, o le grandi fortune consolidate sono ovviamente a favore dell’establishment politico. Che in questa occasione, proprio grazie alla presenza ed ai comportamenti quasi eversivi di Donald Trump, ci si aspettava si orientasse pressoché unanimemente verso il partito democratico, come già avvenuto anche nel 2016, quando Trump vinse in maniera pressoché inaspettata.

Questo orientamento è ovviamente presente anche nel 2024, ma con un’importante eccezione. Perché la vera novità di quest’anno è che a favore di Trump si sono schierate tutte o quasi le più visibili fortune legate all’elettronica, e in particolare quelle di Silicon Valley. E ciò pur essendo aspramente divise dalle rivalità scatenate, specie dopo la comparsa – sugli schermi di tutti i computer del mondo – dell’affascinante ChatGTP. E che si scontrano in maniera ancora più coinvolgente nella guerra totale, di tutti contro tutti,  per la General Artificial Intelligence.

In primo piano, e con maggiore clamore si è fatto notare da Luglio a questa parte – dopo il colpo di pistola che ha sfiorato il candidato repubblicano a due centimetri dal cervello –  l’impegno di Elon Musk, di cui si parla come destinato ad avere un ruolo ufficiale nella prossima presidenza repubblicana. Ed effettivamente l’uomo più ricco del mondo sembra bruciare dalla voglia di far politica, nonostante l’handicap di non poter correre egli stesso per la Casa Bianca perché, essendo originario del Sudafrica, è cittadino americano solo dal 2002,e non ha quindi il requisito fondamentale di essere American born.

Gigantismo e declino dell’imprenditorialità

Alcuni osservatori particolarmente critici hanno voluto e confrontarle i plurimiliardari del big tech con gli “oligarchi” dei paesi ex comunisti. Ma questo è solo un insulto, tipico di una campana elettorale particolarmente aspra. In realtà si tratta di qualcosa di radicalmente differente, come origine e come ruolo. Quelle del big tech sono infatti fortune nate attraverso avventurose iniziative in tutto simili a quelle delle decine di migliaia di start-ups che ogni anno vengono lanciate. Ma che sono riuscite ad avere un enorme successo. E che – se sono rimaste ancora a vocazione innovatrice – guardano oggi alla nascita di nuove start-ups con l’idea di poter assorbire quelle più fortunate come una conveniente fonte di permanente innovazione, perché queste sono spesso il frutto del lavoro appassionato e non retribuito di giovani di ingegno, qualche volta sostenuti dalla dalle proprie famiglie. Su cui si scarica il costo dei tentativi infruttuosi.

In realtà, le imprese del big tech sono state trasformate dal loro stesso successo. E a differenza delle grandi imprese a vera vocazione innovatrice esse guardano alle start-ups venute – e che continuano a venire – dopo di loro come ad elementi di disturbo, come a potenziali concorrenti, da comprare ed assorbire prima che essi possano volare da sole, e  da mettere in gabbia per proteggere la propria posizione.

In entrambi i casi, comunque, il big tech vede con ostilità il lavoro di quegli organi della Stato federale che cercano di regolare il mercato delle fusioni e delle acquisizioni di imprese, e che agiscono in funzione antimonopolistica, per difendere tanto la concorrenza quanto i consumatori.  Organi cui l’amministrazione Biden negli ultimi tre anni ha invece conferito grande autorità. Tanto che la sua uscita di scena suscita timori in una parte della società civile, e non solo quella dei consumatori e dei lavoratori, più esposta ad una deriva suprematista delle, ma anche in quello delle iniziative che dipendono, per i loro successi e la loro crescita, dai Venture capitalists, che sono poi spesso i giganti del settore  Perché il venture capital sarà pure una quota ristretta del settore finanziario, ma negli ultimi anni ha assunto, nei comparti in cui la sua attività è prevalente, con caratteristiche molto più monopolistiche che non il settore finanziario  nel suo insieme.

Come viene fatto notare dagli specialisti, oggi, nonostante tutto l’hype, tutto il chiasso sollevato dalla comparsa di un naturale rivale dei motori di ricerca come ChatGPT, Google controlla ancora il 90 per cento di questo mercato. Ed Amazon, dal canto suo,  controlla circa il 40 per cento delle vendite on line, mentre Meta controlla tre dei quattro social media principali. Ed insieme a Microsoft questi tre colossi sono impegnati nella guerra all’ultimo sangue in corso a Silicon Valley per il controllo della AGI, la Artificial General Intelligence, quella dai risvolti più pericolosi non solo per i rapporti uomo-macchina, ma anche e in primo luogo per il contratto sociale. E per la stessa sopravvivenze del genere umano, come esplicitamente ammesso, sia da quelli che si sono (talora, o fasi alterne) manifestati come i portavoce sia del campo no-profit, come Elon Musk, che di quello for-profit, come Sam Altman.

Si spiega così che alcuni miliardari, già donatori di fondi a Kamela Harris – che proviene proprio dalla Bay Area, ed ha fatto a San Francisco tutta la sua carriera, cominciando come Procuratore distrettuale e poi fino al Senato – abbiano pensato di poter porre una sorta aut aut alla loro candidata. Come in particolare  nel caso di un imprenditore del settore elettronico, Reid Hoffman,  diventato miliardario con LinkedIn e con Paypal, che ha offerto alla Harris un finanziamento eccezionale di 50 milioni per la sua campagna, a condizione che la candidata democratica si impegnasse, una volta eletta, a non rinnovare l’incarico a Lina Khan, una immigrata trentacinquenne, sinora sconosciuta agli Europei, nominata da Biden alla Presidenza (scaduta alla fine di Settembre 2024) della Federal Trade Commission, la principale autorità degli Stati Uniti, insieme al Dipartimento della Giustizia, in materia di tutela della concorrenza.

Un’immigrata, e l’America che premia

Evidentemente, lo straordinario coraggio ed vigore di cui Lina Khan ha dato prova nei tre anni del suo mandato ha toccato un nervo assai sensibile del big tech, di queste grandissime aziende che si trovano a dominare, senza vera concorrenza, interi specifici – ma amplissimi – mercati.  Eppure è importantissimo dare continuità alla protezione delle start-ups, e ciò non sarà facile senza l’impegno molto duro e molto attivo con cui la Commissione preceduta da questa giovane immigrata ha sinora condotto il proprio ruolo.

Ma possono davvero l’impegno professionale ed il destino di Lina Khan, di una donna di soli 35 anni, di un’immigrata, per di più addirittura di origine pakistana, giocare un ruolo tanto importante nelle manovre dei potenti per influenzare la scelta del Presidente degli Stati Uniti?  Probabilmente si!  Per il ruolo forse ancora più cruciale che la FTC – la Federal Trade Commission, appunto – potrà svolgere nei prossimi quattro anni nel disciplinare il tempestoso processo attraverso il quale, a Silicon Valley, sta nascendo l’Intelligenza Artificiale Generale, che mette in gioco il futuro dell’umanità.

Ciò che invece è sbalorditivo è l’itinerario attraversi il quale Lina Khan è giunta ad occupare una posizione così centrale nei nostri destini. Un itinerario che può essere riassunto nel breve  curriculum di questa studentessa della Yale University, che ancora prima di avere vent’anni, aveva condotto una ricerca sulle pratiche commerciali di Amazon e sulle radici del successo di Jeff Bezos. Ricerca condotta a fini universitari, ma da cui era nato un articolo di 95 pagine – novanta cinque pagine – “Amazon’s Antitrust Paradox” accettato e pubblicato dal Yale Law Journal nel 2017, durante la presidenza Trump. Un articolo che rivelò un genio del pensiero giuridico-politico e la lanciò come teorica della lotta contro le derive monopolistiche e plutocratiche del sistema americano.

Era stato un articolo che aveva fatto tremare tutto l’established wisdom, tutti i concetti riduttivi del ruolo dell’antitrust supinamente accettati da una trentina d’anni in materia di controlli e di pratiche monopolistiche, da quando gli Stai Uniti hanno visto il crescente ruolo dai giganti della comunicazione e del denaro. E che aveva spinto Biden a far passare questa straordinaria studentessa dal dire al fare, dallo studio accademico di questioni estremamente delicate, complesse e che coinvolgono enormi interessi, all’applicazione delle sue idee. Una storia che fa riscoprire come forse esista ancora sotto il frastuono dei media un’America che gli Europei hanno conosciuto nella seconda metà del secolo scorso. L’America che essi hanno anche amato, quella che riconosce, accoglie e premia il merito e la forza di volontà. L’America sul cui modello andrebbe stabilito quell’alignment con i cui valori umani di cui si va alla ricerca nella tempestosa impresa di costruire l’AGI, l’Artificial General Intelligence.

Ma gli ostacoli non sono pochi. Non per caso, alla scadenza della Presidenza Biden, Jeff Bezos in persona, proprietario del Washington Post oltre che di Amazon – e il cui motto è “gradatim ferociter”, poco alla volta, ma con sempre più ferocia , è intervenuto brutalmente nella linea politica del giornale, i cui lettori votano principalmente democratico, e in violazione dell’autonomia professionale del Direttore, ha imposto che il quotidiano non prendesse posizione sul voto del 5 Novembre. Un intervento che sembra gli sia costato la cancellazione di circa 250.000 abbonamenti, più o meno il 10% del totale. Evidentemente un piccolo prezzo da pagare perché sia eliminata una fastidiosa moralista, tenace assertrice della correttezza della concorrenza come principio irrinunciabile  delle società democratiche.

“Indecent proposal”

Il comportamento di Bezos, e quelli simili di altri personaggi del mondo del business e dell’informazione,  ma soprattutto l’offerta di scambio avanzata a Kamala Harris contro Lina Khan, sono probabilmente gli indicatori cruciali del perché Bill Gates abbia detto che questa tornata elettorale “è diversa dalle altre”. Ed hanno ridato una qualche allarmante attualità alle parole del giurista Louis D. Bradeis, il primo membro – dal 1916 al 1939 – di origine ebraica nella Corte Suprema: “in questo paese noi possiamo avere la democrazia, oppure possiamo avere grandi ricchezze concentrate nelle mani di pochi, ma non possiamo avere entrambe le cose”. Ed ha spinto Bernie Sanders a pronunciarsi in difesa del’operato di Lina Khan. Ma l’intervento pià energico è stato quello d Alexandria Ocasio Cortez: “Visto che i miliardari hanno provato a fare i furbi con i candidati, lasciatemi mettere le cose in chiaro – ha scritto la Congresswoman di NYC in un post sulla piattaforma sociale X (l’ex Twitter). Se qualcuno si avvicina a Lina Khan, ci sarà una vera e propria rissa. E questa è una promessa”.

All’offerta indecente avanzata di magnate del web – ovviamente lasciata cadere – Kamala Harris ha reagito con molta discrezione, ed anche con una certa elettoralistica ambiguità, evitando di prendere ogni impegno, ma anche ogni posizione. Addirittura evitando di parlare dell’argomento e di sposare troppo chiaramente il sostegno dei sostenitori di Lina Khan  convinti della estrema necessità di proteggere, garantire e incentivare la concorrenza, specie in un momento così drammatico di progresso tecnologico.  E quindi fautori della continuità dell’azione antimonopolistica nel settore, e della opportunità che l’acquisto delle start-up venga sottoposto alla regolamentazione e al controllo pubblico.

L’iniziativa di Bill Gates a favore della Harris induce insomma a riflettere, specialmente se si tiene conto del fatto che, come già sottolineato, Microsoft possiede una enorme ed originaria partecipazione in OpenAI, e che suoi rappresentanti nel board  hanno sempre sostenuto Sam Altman, almeno sino alla recente defezione totale di tutte le grandi personalità che lo hanno accompagnato nel suo dichiaratamente pericoloso progetto. Defezione che comprende anche Mira Murati, la vera creatrice di ChatGPT, con cui OpenAI ha fatto tremare il mondo, (e che forse avrà finalmente il tempo di dare soddisfazione a sua madre, disperata che la figlia trentacinquenne, ancorché bella, famosa e miliardaria, non abbia ancora un marito).

La mossa di Bill Gates sembra finalizzata a controbilanciare il forte attivismo dei grandi dei big tech che si sono di fatto impadroniti della candidatura di Donald Trump. E che sembrano sicuri che una linea assai diversa da quella di Lina Khan sarà seguita da chiunque il candidato repubblicano, se eletto alla Casa Bianca,  dovesse nominare a sostituirla. E ciò anche se qualcuno pensa che da Trump ci sia sempre da aspettarsi qualche sorpresa, e perfino qualche iniziativa sgradita ai miliardari che oggi lo sostengono. Essi, ad esempio, hanno molto influito sulla scelta del candidato repubblicano alla Vicepresidente. Eppure è stato  proprio JD Vance a dichiarare al New York Post che Lina Khan potrebbe trovare un ruolo nell’Amministrazione Trump, così come potrebbe trovarlo Elon Musk “nel lavoro per combattere la censura imposta dal big tech. ”Io sono d’accordo sia con l’una che con l’altro su alcune cose – ha detto sorridendo il candidato repubblicano – e in disaccordo su altre.”

Il vecchio e nuovo Trump

Una vittoria di Trump il 5 Novembre avrebbe significati e conseguenze piuttosto diverso da quella del 2016. (CLICCA QUI) anche se il quadro sociale del Paese rimane assai simile: quello di una società caratterizzata da una moltitudine sempre crescente di appartenenti ad una classe operaia (che i giornali americani chiamano middle class, anche per nascondere la pauperizzazione e la scomparsa delle vere classi medie)  che avvertono come i loro posti di lavoro, decimati dagli investimenti in Cina negli anni della globalizzazione, siano ora minacciati dalla AI Generativa.

E che le disparità aumentino è anche indicato dal fatto che il numero dei milionari si è accresciuto del 38 per cento rispetto al periodo precedente il 2016.  Quella in cui Kamala Harris e Donald Trump si battono per la Presidenza rimane una società caratterizzata dalla contrapposizione tra ricchi da un lato, e dall’altro da una massa di senza occupazione e senza tetto; una società, cioè, che è andata evolvendo verso una estrema radicalizzazione sociale e culturale, come ben visibile soprattutto nelle strade di San Francisco, più che in ogni altra città degli Stati Uniti. Al punto che il partito dei miliardari chiede che l’essere senza fissa dimora venga considerato un reato.

Non molto nella situazione sociale degli Stati Uniti sembra essere cambiato. Eppure, come ha detto Bill Gates, queste elezioni sono diverse da quelle precedenti. E ciò anche – e forse soprattutto – perché assai vicina appare l’ora di una realizzazione tecnologica che promette sconvolgimenti in ogni campo, la realizzazione – tra uno e cinque anni da oggi –  della Intelligenza Artificiale Generale, una vera e propria rivoluzione dagli esiti largamente imprevedibili, e probabilmente assai diversi a seconda di chi riuscirà – se qualcuno ci riuscirà – a cavalcarne e dominarne gli aspetti socio-politici

I grandi monopolisti del settore potrebbero insomma contare su una vittoria repubblicana per ottenere – sul mercato dell’innovazione tecnologica – delle condizioni favorevoli alla conservazione di una sorta di statu quo, piuttosto che al dinamismo tecnico ed imprenditoriale che la linea di Lina Khan, è più o meno riuscita a proteggere, tra vittorie e sconfitte, anche contro avversari di una taglia tale da far paura ad ogni giudice.

La strada da Harvard al MIT

La facilità o meno con cui i grandi gruppi high-tech possono assorbire le start-up gioca un ruolo importantissimo nello sviluppo di zone come Silicon Valley. Peccato che pochi ricordino quello che accade in un periodo immediatamente precedente il boom di Internet  e delle imprese tecnologiche in California. Quando di Silicon Valley non esisteva ancora nemmeno il nome, era semplicemente una valle di Santa Clara County, molti casi di attività produttive create per spin-off dalle attività di ricerca si verificarono, molte start–ups tecnologiche apparvero infatti sulla Route 128 dello stato del Massachusetts; una strada che unisce il Massachussettss Institute of Technology con Harvard, e che quindi aveva un potenziale flusso di idee e di progetti da convertire in start ups infinitamente superiore da quello che era mai potuto provenire dalla sola Stanford e dalla sua zona.

Sulla Route 128 quasi tutte le aziende innovative furono però acquistate da grandi aziende, e spente, con poche eccezioni nel settore alimentare. E divenne allora chiaro come, una volta assorbiti ed integrati in un grande gruppo, gli ideatori di un progetto e di una start-up che potrebbe portare a significative innovazioni, e portare ad un grande sviluppo sul piano produttivo e commerciale, vengono a trovarsi in una posizione particolarmente sfavirevole all’interno della struttura aziendale, e risultare in definitiva perdenti. Il portatore di un progetto creativo veramente innovativo non può più, per cercare finanziamenti rivolgersi a un piccolo venture capitalist disposto a rischiare quanto l’innovatore per migliorare il proprio status.

Come ha scritto, anche sulla base di quella esperienza l’economista Rosabeth Moss Kanter , autrice dell’innovativo studio, The Change Masters: Innovation and Entrepreneurship in the American Corporation (Simon & Schuster, 1983) il dipendente di di una grande, anche quando appartiene ad un gruppo di di ricerca e sviluppo dedicato ad attività innovative , non può comunque avere un ruolo un imprenditoriale “ ciò che fa deve corrispondere a ciò che ci aspetta da lui, secondo norme e guidelines prestabilite …. Il ruolo imprenditoriale suppone invece non solo che gli individui si distacchino dalle pratiche abituali, ma anche che essi acquisiscano influenza e potere all’interno dell’azienda, e che ne facciano uso ottenere delle le risorse necessarie al progetto. Il che non è facile.

Gli innovatori nelle grandi strutture

Tra i casi recenti basterà ricordare quello che ha visto come coinvolti la più che consolidata Google e la allora (2022) neonata OpenAI. La prima aveva già cinque anni prima sviluppato un’architettura di deep learning che aveva dato vita a LaMDA (Language Model for Dialogue Applications), in pratica una versione precoce di ChatGPT, che però non riuscì a superare i molti livelli burocratici di approvazione all’interno di un’azienda ormai gigantesca. Ostacoli che invece non esistevano in una struttura nuova e agile come OpenAI, creata a Dicembre 2015. Il resto è noto.

In parole povere ciò significa che un’azienda struttura complessa e gerarchicamente organizzata, e quindi anche in una ex start-up consolidatasi con gli anni, l’ambiente é fortemente sfavorevole alla proposizione di nuove idee di nuovi servizi, di nuovi prodotti o di nuovi metodi produttivi. Chi ha un’idea nuova da proporre viene a trovarsi, nel quadro di una grande struttura, di fronte ad un suo superiore gerarchico il quale finisce per essere anche lui in una situazione ambigua e delicata.

Se infatti egli concede al dipendente di più basso livello un finanziamento importante è che poi non si conclude in un successo commerciale, egli avrà sprecato le risorse dell’azienda, e commesso un errore che lo penalizzerà dopo il resto della sua carriera. Se invece il progetto avrà successo, il merito sarà soprattutto del suo sottoposto, che diventerà più importante di lui, e che magari si vendicherà degli sforzi fatti in passato dal suo capo per tenerlo ai compiti assegnatigli e disciplinarne la fantasia creativa che lo distoglieva dalla routine aziendale.

Inevitabilmente, in questa situazione, il decisore ultimo sceglierà di investire in progetti non troppo nuovi o troppo audaci, bensì in campi e su iniziative già, almeno parzialmente, esplorate che lo pongano al riparo da accuse di sperpero delle risorse dell’azienda. Un tipo di comportamento che sarebbe ancora più automatico qualora a dover decidere fosse un pubblico funzionario incaricato di distribuire sussidi a start-ups “promettenti”.

In una fase quale quella attuale, in cui si profila, come e molto di più che negli anni 60, un flusso rapido di novità scientifico-tecniche a partire dalle quali sarà possibile creare nuovi mercati con nuovi prodotti e nuovi servizi, o nuovi processi produttivi si conferma perciò come indispensabile il ruolo delle start-ups e di autentici venture capitalists. Le stesse elefantiache e pesanti aziende che oggi ingombrano il campo dell’elettronica se ne rendono conto, tanto da essere permanentemente alla ricerca di non facili soluzioni di compromesso. Ed altrettanto si conferma come necessaria la presenza di un “potere terzo”, di un potente soggetto che svolga una funzione anti-monopolistica controllando e disciplinando M&A e proteggendo l’autonomia e la sopravvivenza delle start-up contro le politiche di dumping tendenti a buttarle fuori dal mercato.

Questa è la funzione che sotto la presidenza Biden ha svolto la Federal Trade Commission, cosicché una vittoria di Donald Trump oppure di Kamala Harris potrebbe decidere, in senso negativo o positivo, anche il destino della brillante immigrata e dell’Istituzione da lei diretta. E quindi deciderà in maniera abbastanza immediata non solo il destino di una politica di reindustrializzazione dell’America che possa metterla in condizione di svolgere gli estremamente impegnativi ruoli che potrebbe avere in un mondo che, da un lato, sembra scivolare verso la guerra, ma anche l’impatto politico e costituzionale delle straordinarie prospettive scientifiche e tecnologiche di fronte alle quali si trovano oggi gli Stati Uniti d’America.

Tempesta su Silicon Valley

Il quadriennio della prossima presidenza americana, e forse già il suo primo anno, il 2025, passeranno probabilmente alla storia come il momento cruciale per l’intelligenza artificiale generale, la cosiddetta AGI. Ed estremamente significativi appaiono perciò il caos e la frammentazione che regnano attualmente all’interno del gruppo di eccezionalie personalità scientifiche ed imprenditoriali che avevano dato vita di OpenAI. La quale però – pur andando in rosso di circa cinque miliardi di dollari l’anno – ha sinora paradossalmente continuato ad acquistare valore sul mercato fino ad essere giunta 150 miliardi di dollari.

Ma non c’è solo ambizione e lotta per il potere nelle vicende che oggi scuotono Silicon Valley.

Ci sono anche molti dubbi e casi di coscienza, perplessità e impegni politici, forse persino un vero travaglio morale, inevitabile in un’impresa così ambiziosa e al tempo stesso così pericolosa; tanto pericolosa da portare entrambi i principali protagonisti della vicenda a esplicitare i rischi che ne potrebbero derivare  per l’intera specie umana. Del resto ne danno prova le alternanze di posizioni che si trovano e si incontrano nel ripercorrere l’itinerario, in definitiva breve, di OpenAI. Dapprima Mask ed Altman concordano con Microsoft la creazione di una struttura non profit, ma poco dopo proprio Altman, che ha assunto la massima responsabilità dell’impresa, tenta di introdurre nel quadro anche delle attività for profit.

Ciò porta dapprima, da parte di Elon Musk, ad un tentativo di trascinare Sam Altman in tribunale, e poi ad una “congiura” della maggioranza del board per abbattere Altman. I l tentato golpe provoca però una rivolta (non disinteressata economicamente) di quasi tutto il personale dell’azienda, che termina con il ritorno, quattro giorni dopo, di Altman – che nel frattempo era stato assunto da Microsoft – alla posizione di comando e con il progressivo allontanamento  dei “congiurati” dai ruoli direttivi.

Non molto tempo dopo, Musk abbandona la sua azione in tribunale, ma poi presenterà un’altra denuncia, mentre a poco a poco tutti i membri del gruppo originario di specialisti all’origine del progetto abbandonano OpenAI. Tranne quelli legati a Microsoft, che invece continua a sostenere e a finanziare il progetto. Ma anche essa a fine ottobre 2024 mostra segni di disaccordo con la linea Altman. Più o meno in coincidenza con la dichiarazione di Bill Gates a favore di Kamala Harris.

L’allineamento

Si tratta di uno scontro che si manifesta non solo e non tanto tra gli scienziati e gli imprenditori  coinvolti, in un quadro di cui ormai ciascuna personalità tra quelle storiche di questa azienda sembra aver scelto di correre da sola, o con una propria start-up e con proprie alleanze. C’è prima facie una contrapposizione tra forprofit e no-profit,  ma il vero dilemma, il vero e fondamentale terreno di scontro, il vero problema è quello del cosiddetto “allineamento”, cioè – per dirla in maniera assai rozzamente semplificata –  il rispetto o meno, da parte dell’AGI, da parte dell’Intelligenza Artificiale Generale, dei valori essenziali della società umana. Tutto ciò da parte di una replica elettronica ed elettro-meccanica del cervello umano e degli organi da esso controllati. Replica che potrebbe inoltre rapidamente diventare autonoma dal suo creatore, rivale e persino dominante, e che se sui valori dell’uomo non fosse “allineata” potrebbe facilmente portare alla distruzione della nostra “specie”.

Quella dell’allineamento non è dunque – come è stato autorevolmente fatto osservare – “una questione meramente tecnica, ma sociale, che richiede l’apporto di varie discipline come l’etica, la filosofia, la politica, la legge, l’economia e la sociologia. Richiede una nuova comprensione dell’IA come rete socio-tecnica e non come macchina, un’entità a sé stante”. Ciononostante molti sono i soggetti, scientifici ed imprenditoriali che si disputano il compito della sua realizzazione

La Artificial General Intelligence, questa ormai prossima creazione dell’uomo, potrà essere considerata positiva se da essa avremo in campo informatico un caso di progresso scientifico-tecnico qualcosa di comparabile a quel che è stata nell’antichità la scoperta della leva – che, come fu detto, se fosse stato disponibile un punto di appoggio, avrebbe consentito di  sollevare il mondo. Vale a dire che la AGI sarà positiva se essa potrà essere uno strumento per potenziare il cervello umano nella sua capacità creativa, come la leva fu per il braccio dei nostri antenati. E che sia così – anziché uno strumento di controllo sociale totale, di inquadramento, di oppressione,  e in definitiva di distruzione della società umana – dipenderà anche in parte dalle condizioni in cui si svolgerà lo scontro oggi in atto a Silicon Valley.

Dipenderà – o almeno potrebbe dipendere – anche dal fatto che la creazione dell’AGI avvenga in un quadro di scontro aperto e senza regole tra gruppi più o meno forti e potenti e legati principalmente alla logica della guerra, come sono già alcuni dei soggetti che si affrontano sulla scena di Silicon Valley.  Oppure se tutto ciò avverrà in presenza di un ruolo forte di controllo e moderazione da parte dello Stato, il più potente strumento operativo mai creato da quell’animale sociale che l’uomo.  A seconda di quale di queste due ipotesi si realizzerà potremmo tutti dover fare i conti con una delle diverse intelligenze artificiali generali che i nostri mezzi intellettuali ci consentono oggi di intuire come possibili. E con diversi destini collettivi.

Giuseppe Sacco

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