Barbara Balzerani – nome di battaglia “Luna” – ha partecipato all’intera operazione Aldo Moro nel 1978, al sequestro del gen. Dozier, all’assassinio di Lando Conti, sindaco di Firenze, e a vari altri assassini… troppi da enumerare qui. Dopo l’arresto nel 1981 di Mario Moretti, la Balzerani si trovò a dirigere la fazione “Brigate Rosse – Partito Comunista Combattente”, mentre Giovanni Senzani diresse l’altra: “Brigate Rosse – Partito Guerriglia”.
La “compagna Luna” è stata tecnicamente una “compagna assassina”. Una volta arrestata, fu costretta a prendere atto, per la moral suasion delle manette, che la lotta armata era fallita. Ne ha scritto nel corso degli anni la preistoria e la storia.
Ma la constatazione del fallimento non ha mai significato per lei il riconoscimento di un tragico errore. Come Mario Moretti, anche la Balzerani ha ribadito che il loro unico errore è consistito nell’essere stati sconfitti. “Se avessimo vinto, saremmo stati considerati degli eroi!”. Insomma: se vinci, sei un “partigiano”, se perdi sei un “terrorista”.
Donatella Di Cesare, docente di Filosofia teoretica alla Sapienza di Roma, ha “tweettato”, rivolgendosi alla salma della Balzerani: “La tua rivoluzione è stata anche la mia. Le vie diverse non cancellano le idee. Con malinconia un addio alla compagna Luna”. La tesi adombrata dal tweet: “la via diversa” – i mezzi – percorsa dalla Balzerani era sbagliata, ma il fine l’ho condiviso.
La lotta armata in Italia e le vie al comunismo
Poiché è il fine che spiega e giustifica i mezzi, qual era il fine condiviso? Il fine era il comunismo inteso come liberazione umana e costruzione dell’uomo nuovo, cioè “la trasformazione radicale della società”, che un’intera generazione, oggi al tramonto, ha vagheggiato.
L’idea di comunismo ha avuto lungo corso, da quando Marx e Engels ne hanno scritto nell’”Ideologia tedesca” – tra il 1845 e il 1846, ma pubblicata solo nel 1932 – e nel Manifesto del Febbraio 1848. I due avvertivano onestamente che per costruire l’uomo onnilaterale e plenario e la società comunista “una rivoluzione è necessaria, non solo perché è impossibile rovesciare la classe dominante in nessun altro modo, ma anche perché la classe rovesciante può liberarsi di tutto il vecchio abominio e diventare capace di creare una nuova base per la società solo in una rivoluzione”. Il modello di rivoluzione era quello del 1789: armi ai proletari, ghigliottina ai borghesi.
La storia ha proposto almeno due vie diverse per realizzare il comunismo: una è quella del primitivismo asiatico di Lenin, Stalin, Mao, Kim il Sung, Pol Pot; l’altra è quella occidentale-luxemburghiana, mischiata successivamente con la teoria critica della Scuola di Francoforte, con la Teologia della liberazione, con il terzomondismo, con “il marxismo dei bisogni” degli anni ’70, intriso a sua volta di foucaultismo – per il quale ogni istituzione è sempre “totale” -, di psicanalisi post-freudiana, di neo-spinozismo.
Decine di milioni di uomini reali sacrificati
La storia ha mostrato con tutta evidenza che l’unica via di successo per quel fine è stata quella “asiatica”, con l’Holodomor, le purghe, i Gulag, i Lao-gai, il Grande balzo, i Killings Fields cambogiani: decine di milioni di uomini reali sacrificati, come in un sanguinario rito azteco, sulle are grondanti sangue dell’Uomo nuovo, dell’Uomo totale. Dopo il XX Congresso del PCUS del 1956, l’altra via al comunismo – quella insurrezionalista “luxemburghiana” – divenne l’oppio di moltissimi intellettuali occidentali e delle giovani generazioni che li hanno – li abbiamo! – presi come maestri.
Togliatti e Berlinguer, non essendo stato possibile percorrere la via sovietico-cecoslovacca in Italia e non amando quella anarco-insurrezionalista, ne teorizzarono una ibrida: il leninismo, rivendicato da Berlinguer, temperato dal gramscismo. Il famoso “Italian marxism” contrapposto al “Soviet marxism” criticato da Marcuse.
Nei gruppi della lotta armata italiana di sinistra sono stati presenti ambedue i modelli: quello leninista e quello luxemburghiano. Il primo, praticato dalle BR, sulla base di analisi tratte di peso dal VII Congresso dell’Internazionale comunista, che prevedevano un’evoluzione fatalmente fascista e terroristica del SIM, lo Stato imperialistico delle Multinazionali.
E perciò si ponevano in continuità ideale con il mito della Resistenza tradita, sostenuto da una parte di quello che Togliatti aveva definito “partigianume” a direzione Pietro Secchia, e rinominata Nuova Resistenza. Soggetto: il proletariato di fabbrica.
Il secondo modello fu praticata da Prima linea, nella quale confluirono pezzi di Lotta continua, di Autonomia operaia e del Movimento del ’77. Soggetto: il moderno Lumpenproletariat, che Marx non gradiva, cioè tutti possibili dannati della terra. Qui si affermava che il fiore del comunismo stava già sbocciando sul terreno fertile della società civile. Lo avrebbe nutrito il sangue di professori, magistrati, poliziotti, giornalisti: “Qu’un sang impur abreuve nos sillons!” aveva già scritto Rouget de L’Isle nel lontano 1792, componendo il “Canto per l’Armata del Reno”, poi denominato “La Marsigliese”. Dai due modelli di violenza rivoluzionaria seguivano due tipi diversi di organizzazione militare: azioni pianificate di commandos e clandestinità rigorosa o insurrezionalismo “spontaneo” e omicidi, prima e dopo l’orario di lavoro. Risultato dei due modelli: centinaia di morti e qualche migliaio di feriti. Un avvio di guerra civile.
Il mito cancel culture/woke/correctness della trasformazione radicale
Se pare strano che la ventunenne Donatella Di Cesare non si sia accorta di quel fine e di quei mezzi, quando sfilava giuliva nei cortei del Movimento del ’77, per es. in quello “armato” del 12 marzo 1977 a Roma, dove già era già apparsa “la geometrica potenza” delle P38, appare incredibile che non se ne sia ancora accorta nel 2024. Davvero “la tua rivoluzione è stata anche la mia”?!
Spiegare il fine e i mezzi ai giovani di oggi è necessario, perché, oggi come allora, nel bel mezzo di fratture socio-economiche globali, si ripresenta il mito della trasformazione radicale della società e del rovesciamento della storia. Esso ha affascinato le generazioni di inizi ‘900, nella forma del futurismo e del sorelismo, quelle tra le due guerre, nella forma del fascismo-nazismo e del social-comunismo, quelle degli anni ’60, nella modalità del comunismo, del terzomondismo, del comunitarismo. E illude quelle di oggi in tre forme “anglosassoni” intrecciate: quella della “cancel culture”, che distrugge retroattivamente la storia passata; quella dello “wokismo”, con la sua pretesa di costruirne una totalmente nuova; quella della political correctness, con la sua giacobina intolleranza.
I nostri ragazzi hanno bisogno di qualcuno che insegni loro – sì, che insegni! – che la Storia è una costruzione sbilenca, perché fatta con il legno storto degli uomini; che non si danno palingenesi; che le Bastiglie da prendere sono esaurite; che si può essere pellegrini inquieti dell’Assoluto, solo se non si ceda all’illusione gnostica di afferrarlo qui e ora con le nostre mani.
E che le persone non sono sacrificabili nel nome dell’Umanità.
Perciò la lotta armata non è stata un errore, perché è stata sconfitta, come hanno sostenuto, con la loro cinica morale da Komintern, Mario Moretti e Barbara Balzerani e con loro tutti i non-pentiti. Il fine era l’Errore, perciò anche il mezzo, anche se avesse avuto successo.
Political correctness?
Allora cacciamo la Di Cesare dall’Università? Difesa dalle vedove in gramaglie del ’68 e del ’77 e da quanti usano la political correctness come una clava – chi non ricorda l’intollerante opposizione all’invito a Papa Ratzinger a inaugurare l’Anno accademico alla Sapienza il 17 gennaio 2008? – attaccata dalla destra culturale e di governo, anch’essa tentata dall’uso della medesima clava, la “compagna Di Cesare” merita di essere convocata dal suo heideggherismo oracolare in un dibattito pubblico sul terreno della storia novecentesca del Paese – Fascismo, Resistenza, Foibe, ’68, ’77, Terrorismo di destra e di sinistra…- sottraendo la Storia all’uso politico-elettorale contingente e alla melassa emotiva delle malinconie dolenti di una generazione al tramonto, che si volle “rivoluzionaria”.
Giovanni Cominelli