La “Republique” è in fiamme e Parigi, ancora una volta, diventa campo di battaglia.
La Francia, da antica potenza coloniale, ha vissuto, almeno fin dall’immediato Secondo dopoguerra, un imponente fenomeno migratorio che, per quanto su determinati fronti abbia raggiunto importanti livelli d’integrazione, nelle “banlieu”, non solo della Capitale, ne regista, al contrario, il completo fallimento.
Di fatto chiusi in un ghetto, non a caso sono soprattutto i giovani di seconda e terza generazione delle popolazioni migranti a sentirsi sradicati, privi di un suolo, di una cultura, di una patria in cui riconoscersi. L’unica identità collettiva che li tocca è fondata sulla bruciante coscienza dell’essere “esclusi”. E questa coincide con l’etnia di appartenenza. Ne deriva, inevitabilmente, che quest’ultima, il colore della pelle, la cultura nativa, raccontata dai padri, ma inafferrabile, la nostalgia di una terra lontana cui si sente di appartenere per quanto nati altrove, eppure negata; lo scandalo della povertà e l’insicurezza, il contrasto stridente con la società del benessere ostentato e dei consumi illimitati, il sentimento di diffidenza o addirittura di disprezzo che si coglie nello sguardo indifferente o scostante ed ostile di chi sta dall’altra parte. Insomma, tutto questo diventa una bandiera per cui combattere. È qualcosa di diverso e di più di una rivolta popolare, come molte ne abbiamo conosciute nella storia di tutti i Paesi. Qui siamo dentro un conflitto “necessario”, che sta, cioè , nell’ordine delle cose ed è , pertanto, inevitabile.
La sua radice ultima non ha nulla a che vedere, ad esempio, per stare a noi, con l’assalto ai forni descritto da Manzoni, o con la più antica “rivolta dei ciompi”. Qui non è in gioco il pane, ma molto altro. È in gioco – vale per le collettività, quel che vale per le persone singole – quell’identità dell’ “io” che si costituisce solo nella relazione con l’alterita’ del “tu”. E quando questa relazione manca, si cade in un avvitamento su di sé che non ha soluzione.
Anche per questo gli scontri sono talmente violenti e distruttivi, così
da creare un vortice in cui finiscono per essere attratte tutte le proteste e le tensioni, le frustrazioni, le rabbie, gli odi che squassano un Paese intero e mostrano l’impotenza di un’azione politica che, tutt’al più , può ricorrere a soluzioni repressive oppure ad appelli inascoltato.
Ne’, ovviamente, manca chi soffia sul fuoco, alimenta la paura e c’investe le proprie attese elettorali.
Quel che succede in Francia dimostra, anzitutto, che fenomeni complessi, inevitabili, distribuiti su un ampio arco temporale, come la tendenziale formazioni di società multietniche, vanno affrontati per tempo, adottando uno sguardo lungo, che, a costo di essere impopolare nel breve momento, sappia anticipare il tempo di contraddizioni che, lasciate a sé , sono destinate ad esplodere.
In secondo luogo, segnala che il fenomeno delle migrazioni richiede politiche d’accoglienza e d’inserimento che vanno ben oltre il tema della ridistribuzione o dei respingimenti. Siamo di fronte a una questione che interroga il Paese, anche nelle sue articolazioni istituzionali locali.
Infine, va detto che le forze nazionaliste, sovraniste e populiste si stanno assumendo la grave responsabilità – ad un tempo, morale e politica – di creare, anche nel nostro Paese, i prodromi di situazioni che potrebbero sfuggirci di mano, come sta succedendo in Francia.
Si deve muovere dall’assunto che, piaccia o meno, nei prossimi decenni, la formazione di contesti multietnici, multiculturali e multireligiosi, rappresentera’ il processo dominante in tutta una stanca Europa.
Siamo tutti figli di una stessa umanità e dobbiamo avere il coraggio e la franchezza di riconoscerlo.
Domenico Galbiati