Con una nota dissonante fatta risuonare nel bel mezzo del discorso tenuto a Londra, alla Camera dei Comuni, un discorso – come sono sempre quelli del Presidente ucraino – dalla retorica tendente più a conquistare i cuori che a far lavorare le menti, Volodymyr Zelensky ha gettato esplicitamente sul tavolo in cui si gioca la sanguinosa partita ucraina un’offerta estremamente concreta, e rivolta direttamente alla Russia, senza necessità di intermediari. Un’offerta su cui è tornato nei giorni successivi e che Mosca difficilmente potrebbe scartare senza averla prima presa attentamente in considerazione; a meno di non voler dare alimento alle accuse di avere obiettivi che si proiettano al di la della questione ucraina, e al di là della minaccia che la Russia vede in una eventuale adesione di Kiev alla Nato.
A Mosca non può certo dispiacere l’idea di una accettazione internazionale del ritorno della Crimea alla Russia, accompagnata, per di più, dalla cessione delle due “repubbliche” auto-proclamatesi indipendenti nell’estremo est dell’Ucraina. Sembra infatti essere questa l’offerta di Zelensky: un’offerta che sembra essere in aperta contraddizione con le ininterrotte richieste da lui rivolte all’Occidente di aiuti militari, e di interventi che – almeno potenzialmente – spingerebbero il conflitto assai vicino ai limiti della guerra atomica. Perché è un’offerta che effettivamente va oltre il capovolgimento dello spostamento del confine russo-ucraino voluto da Krusciov nella prima metà degli anni cinquanta.
Ritorno a Pereyslav
In occasione delle celebrazioni per il trecentesimo anniversario della firma del Trattato di Pereyslav, che nel 1654 aveva sancito l’annessione dell’Ucraina all’Impero russo, Nikita Serghieivic Krusciov, che era stato pochi mesi prima (14 Settembre 1953) eletto Segretario del Partito Comunista dell’Unione Sovietica, aveva infatti disposto di distaccare l’oblast della Crimea dalla Repubblica Russa, e di trasferirlo alla Repubblica Ucraina. La quale – almeno formalmente – godeva di una larga autonomia, al punto di disporre, assieme alla Repubblica socialista sovietica della Bielorussa, addirittura di un seggio nell’Assemblea delle Nazioni Unite.
Si trattava ovviamente di una fictio, sia sul piano interno che sul piano internazionale. Sotto questo secondo profilo, infatti, l’obiettivo concordato con gli alleati al momento della creazione dell’ONU era quello di accrescere il peso dell’URSS in un’Assemblea che contava allora 50 membri, tutti dotati di istituzioni di tipo più o meno occidentale e dove – all’inizio della trattativa tra i “Cinque Grandi” – la Russia aveva chiesto che tutte e quindici le Repubbliche federative che costituivano l’Urss avessero un seggio.
Il carattere fittizio dell’autonomia ucraina era evidentemente era ancora più vero sul versante interno, nel regime estremamente accentrato degli anni di Stalin.
La decisione di trasferire la Crimea da una Repubblica all’altra era, agli occhi dei cittadini sovietici, totalmente priva di significato, perché destinata a non mutare nulla nella ripartizione dei compiti tra i vari livelli di governo, ed ancor meno nei pochi diritti dei cittadini. Essa fu peraltro spiegata con ragioni di complementarità economiche e geografiche. In particolare, con la pressoché totale dipendenza della Crimea per l’approvvigionamento idrico, dal fiume Dniepr, il cui basso corso si trova in territorio ucraino.
Il XX Congresso
In realtà le ragioni di questa decisione erano altre, ed erano ragioni politiche. Esse infatti apparvero chiare solo due anni dopo la “ucrainizzazione della Crimea, nel febbraio del 1956, in occasione del ventesimo congresso del Partito Comunista dell’Unione Sovietica; un evento cardine nella storia del cosiddetto “secolo breve”, che diede l’avvio ad un processo di relativa liberalizzazione del blocco dell’Est, e durante il quale – con il celeberrimo “Rapporto Krusciov” – vennero denunciati i “crimini di Stalin”.
Si trattava di un rapporto esplosivo, dalla pubblicazione del quale il gruppo dirigente sovietico giustamente temeva che sarebbero potuti derivare disordini anche gravi. Il che non mancò di verificarsi con le vicende che nell’autunno di quello stesso anno agitarono il partito comunista polacco, e soprattutto con la rivolta ungherese che obbligò Mosca ad intervenire militarmente per evitare che Budapest lasciasse il patto di Varsavia, cioè l’alleanza militare che legava i “paesi satelliti” alla Russia.
Krusciov temeva però che gli effetti negativi del tentativo del regime di abbandonare il pugno di ferro e di cambiare passo potessero verificarsi non solo nei paesi satelliti, ma anche all’interno della stessa Unione Sovietica. In particolare temeva che questi potessero verificarsi in Ucraina, dove a partire dal 1927 la politica di Stalin di collettivizzazione delle terre aveva portato a forme di protesta e opposizione, cui era stata data risposta con repressioni ferocissime e con massacri indiscriminati, di cui erano state vittime soprattutto gli esponenti della piccola proprietà coltivatrice, i kulaki, una categoria in cui vennero inclusi persino quei proprietari che avessero anche un solo dipendente.
Il contraccolpo che poteva derivare dalla destalinizzazione – che si sapeva essere inevitabile, e che anzi costituiva il programma politico sulla base del quale Krusciov era stato eletto segretario – avrebbe dunque potuto facilmente prendere, nella Repubblica Ucraina, anche un risvolto nazionalista, e potenzialmente separatista. Venne ritenuto perciò prudente – in una logica di divide et impera, accrescere la componente russa già presente sul territorio e nelle sue istituzioni.
Contro il separatismo ucraino
Il trasferimento della Crimea alla Repubblica Ucraina fu dunque deciso preventivamente alle riforme del periodo kruscioviano, e posto in essere con grande urgenza tra febbraio e giugno del 1954, trascurando persino la procedura prevista dalla costituzione dell’Urss. E portò effettivamente al risultato sperato, nel senso che la terrificante scossa al regime, che molti in Occidente si aspettavano alla scomparsa di Stalin, non si verificò. Il regime diede anzi una prova di forza, in Ucraina come nelle altre 14 repubbliche la cui federazione costituiva il paese dei soviet.
La questione si presentò invece sotto una nuova luce nel 1991 con la disgregazione dell’Unione Sovietica. Le implicazioni politiche dello stratagemma imperialistico di Krusciov, il trasferimento della Crimea all’Ucraina, assunsero connotati sino ad allora non solo inediti, ma impensabili.
Da un lato, i Russi dovevano far fronte al problema di avere al di la della frontiera ucraina circa 8 milioni di loro connazionali “irredenti”, una quota non trascurabile del totale di oltre 25 milioni di Russi che sono rimasti intrappolati nelle repubbliche di nuova indipendenza, in paesi a sistema democratico, ma dove essi sono talora privati del diritto di voto. Dall’altro lato, un appena nato stato nazionale ucraino si trovava dover subito fare i conti con la presenza al suo interno di una forte minoranza, che obiettivamente rendeva più difficile l’affermazione della propria fragile identità nazionale, peraltro già resa incerta dal fatto che la parte più occidentale del paese risente fortemente dal fatto di aver appartenuto in passato, in diversi momenti e in diversa misura alla Polonia ed all’impero austroungarico.
Sorprendentemente, nel clima positivo nato dal postcomunismo e dalla globalizzazione, questa delicata situazione ha tenuto per quasi un quarto di secolo. Ma infine, nel mese di febbraio del 2014, cioè a sessant’anni esatti dal passaggio della Crimea all’Ucraina sovietica, la questione ha conosciuto una prima fase critica. Dopo diversi giorni di tensioni nazionali e soprattutto internazionali che avevano coinvolto i paesi della NATO, tutta la Crimea è stata brutalmente ricondotta sotto il controllo di Mosca. Una annessione de facto, e non riconosciuta internazionalmente; ed uno stato delle cose, che verrebbe però stabilizzato e riconosciuto qualora venisse accettata la proposta informalmente avanzata a Londra dal Presidente ucraino Vloydomyr Zelensky
Un accordo nel quadro post-sovietico
Ci si può ovviamente chiedere perché il Presidente ucraino, che finora si era fatto notare come un forte assertore dell’identità nazionale ucraina, a sostegno della quale chiama a raccolta, con risultati diversi, ma talora estremamente pericolosi per la pace mondiale, potenze e gruppi di pressione dominanti in Occidente, abbia da un giorno all’altro deciso di ventilare l’ipotesi di risolvere su un tavolo essenzialmente bilaterale, nel quadro della successione post sovietica ed in maniera opposta, ma anche più drastica di come aveva fatto Krusciov, la “questione russa” dell’Ucraina. Una questione la cui delicatezza e complessità – anche a non volere considerare il conflitto in corso – è ben messa in luce dai dati demografici, che mostrano l’articolata diffusione complessiva della presenza russa sul territorio. Una presenza che aggiunge molto significato alla mappa delle zone in cui, nelle ultime due settimane ha avuto luogo il conflitto armato.
Non c’è risposta certa a questa domanda, né ci si può aspettare che esso venga mai chiaramente data. Però vale la pena di notare che l’improvvisa disponibilità del presidente ucraino a trovare un compromesso bilaterale con l’invasore russo coincide con le difficoltà che sembra aver incontrato l’unica ipotesi di mediazione veramente realistica, tra le tante che sono state ipotizzate nelle ultime due settimane, la mediazione tentata dal Primo ministro israeliano Naftali Bennett.
Quella in cui si è impegnato Bennett è infatti una trattativa molto diversa da quella ipotizzata da Zelensky. Perché la trattativa tra Russi ed Ucraini può limitare i propri obiettivi alla sola sistemazione a livello locale, al livello della sola Europa centro-orientale. Lasciando ad altri il compito di sedare la conflittualità tra America e Russia potentemente sviluppatasi dopo il ritorno dei Democratici alla Casa Bianca, e poi tramutatasi in un politicamente poco comprensibile scontro tra Occidente ed Est post comunista. E che fa da sfondo, e forse costituisce, la motivazione più profonda dell’invasione russa dell’Ucraina.
Quella che Bennett potrebbe sponsorizzare dovrebbe invece inevitabilmente essere una trattativa tra Putin e l’occidente nel suo complesso, finalizzata a trovare una soluzione al conflitto ucraino sistemazione, nel quadro di una riduzione delle tensioni e dei rischi internazionali se non a livello globale almeno in un quadro comprendente le divergenze e le ostilità oggi così drammaticamente aperte nel comparto mediorientale.
Giuseppe Sacco