Gli anniversari in politica possono essere ricorrenze inutili, processioni di fantasmi, di dinosauri in cerca di rinnovata notorietà, la fiera della retorica, animata dall’ansia di protagonismo di reduci di un mondo ormai scomparso, ovvero occasioni per rilanciare una cultura politica, facendo memoria di un’esperienza ancora attuale. È questo l’auspicio che ci muove nel ricordare alcuni aspetti della teoria e dell’azione politica di Alcide De Gasperi nel settantesimo anniversario della sua scomparsa.

Il decano degli storici del pensiero economico Piero Barucci, Ministro tecnico dal 1992 al 1994 nei governi Amato e Ciampi, ha sentenziato: “la Democrazia cristiana riuscì ad elaborare idee e scelte di politica economica che furono innovative, coraggiose, di lunga visione fino al 1964, per poi risultare come ferita negli anni seguenti e colpita a morte nel successivo drammatico periodo”. In altre parole, gli anni del centrismo degasperiano e l’onda lunga del conseguente boom economico hanno avuto nella DC il centro di elaborazione culturale dell’azione governativa, per poi cedere il passo al PSI nel periodo del centro-sinistra organico voluto dalla segreteria Moro e, quindi, al PCI nella stagione del compromesso storico. Negli anni Ottanta il PSI della nuova generazione dei quarantenni, guidata da Bettino Craxi, è indubbiamente il fulcro e il modernizzatore del sistema economico. Ora, perché, come sostiene Barucci, la DC perde il primato culturale in politica economica, anche se mantiene il ruolo di partito più votato in tutte le elezioni della cosiddetta Prima Repubblica dal 1948 al 1992?

Crediamo che tra le cause si possa annoverare anche il fatto che la DC ha via via perso la sua identità e non parliamo dei pur importanti temi etici: il referendum sul divorzio nel ’74 e quello dell’aborto nel ’81. Gli esiti di entrambe le chiamate alle urne non fanno altro che certificare il fatto che la società si sta via via secolarizzando. Del resto, la rivoluzione culturale del sessantotto ha influenzato anche il mondo cattolico riuscendo peraltro a far prevalere una ermeneutica della rottura nell’interpretazione del Concilio Vaticano II. Ma l’elettorato di ieri, quanto quello di oggi, è sui temi economici che dimostra la maggiore sensibilità. Il punto è pertanto che la DC, cammin facendo, perde la sua natura di partito ispirato dal popolarismo sturziano, diventando sempre più un partito-Stato, centro di interessi clientelari. Emblematico è il caso dell’IRI, creato nel 1933, mantenuto nel secondo dopoguerra e diventato sempre più uno strumento per garantire posti di lavoro in cambio di voti a scapito del principio di efficienza che dovrebbe animare anche il funzionamento dell’impresa pubblica.

Ora, De Gasperi non era un economista. Ma in tutti e otto i suoi gabinetti chiama intorno a sé economisti notoriamente restii all’intervento pubblico e convintamente favorevoli al protagonismo della società civile sulla base del principio di sussidiarietà. I Ministri del Tesoro dei suoi governi sono l’economista accademico liberale Epicarmo Corbino, i democristiani già cofondatori del partito popolare italiano Giovanni Battista Bertone e Pietro Campilli, l’economista accademico liberale Luigi Einaudi, l’economista accademico indipendente ma di orientamento liberale Gustavo Del Vecchio, l’economista accademico democristiano e liberista Giuseppe Pella e l’economista accademico che, come scrive Antonio Magliulo nella voce nell’enciclopedia Treccani, “contribuisce a costruire il modello di economia sociale di mercato” Ezio Vanoni. Anche per la sua provenienza e la sua esperienza nel Parlamento austriaco De Gasperi coltiva una visione in linea con la “terza via” ordoliberale di tradizione tedesca, in particolare con il pensiero di Wilhelm Röpke. E persegue tale linea a prescindere dal fatto che le decisioni di politica economica trovino o meno un consenso nella popolazione. De Gasperi è un popolare, non un populista. Ciò che gli sta a cuore è che le decisioni di politica economica siano moralmente giuste; quindi, finalizzate al conseguimento del bene comune nella concezione propria della dottrina sociale della Chiesa. Non si spiegherebbe diversamente la sponda degasperiana alla performante ma impegnativa “linea Einaudi” per il contenimento dell’inflazione, che venne tanto criticata da Dossetti e dalla sinistra democristiana per i sacrifici che vennero imposti. Né la coraggiosa riforma agraria. Oppure il piano casa Fanfani. E ancora, la legge tributaria Vanoni. Ma anche la politica di integrazione economica europea. Infine, il processo di ricostruzione beneficiando del piano Marshall e tenendo sotto controllo il debito pubblico (nel 1963 il debito pubblico tocca il tetto minimo del 32,6% rispetto al PIL).

La cultura di politica economica di De Gasperi non venne tuttavia portata avanti dalla DC. La parte democristiana che, almeno a parole, si richiamava allo statista trentino fu sostanzialmente sempre minoritaria, non riuscendo mai a introdurre un suo esponente al vertice della segreteria del partito. A partire dalla nuova generazione che si impone nel 1954 e fino allo scioglimento nel 1993, nella DC emerge una sempre più radicata mentalità statalista, e non solo nell’ambito della sinistra ma anche in seno al grande centro doroteo. Il partito liberale non viene coinvolto nella coalizione di governo dal 1963 al 1979 e ricopre un ruolo marginale nell’epoca del “pentapartito”. Gli economisti democristiani di riferimento, si pensi ai due Ministri del Tesoro degli anni Ottanta Beniamino Andreatta a Giovanni Goria, sono dei convinti assertori del modello di economia mista. Del resto, Sergio Ricossa ironizzava sul fatto che i cattolici hanno nominato Keynes “patrono del loro perenne istinto al compromesso”!

Crediamo che De Gasperi avrebbe continuato ad offrire un contributo importante se avesse avuto la possibilità di guidare ancora il Paese e forse avrebbe impedito, prima di tutto con la sua testimonianza di uomo sobrio e parco, che, man mano che gli italiani diventavano economicamente più ricchi, l’Italia divenisse sempre più povera dal punto di vista della qualità inclusiva delle sue istituzioni e dei costumi sociali delle sue élite.

Flavio Felice e Luca Sandonà

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