Viviamo un tempo letteralmente straordinario che interroga la politica ed incalza gli stessi ordinamenti democratici.
Una fase storica nella quale luci ed ombre ci sfidano a discernere il bene dal male, in una condizione inedita che ci priva di tradizionali e scontati criteri di riferimento.
Un tempo che ci invita a “de-coincidere” da noi stessi per adottare uno sguardo critico e fare posto ad una “novità epocale” che preme alle porte dei nostri giorni.
“Novità” che – sostiene Francois Jullien, filosofo francese, dichiaratamente ateo, eppure profondo esegeta del Vangelo di San Giovanni, nonché illustre “sinologo” – può essere data solo da Cristo, cosicché solo il cristianesimo, a suo avviso, può farsene mediatore sul piano del quotidiano accadere storico.
Le biotecnologie e la questione antropologica
Siamo nella stagione della cosiddetta “questione antropologica”. E la politica non può non tenerne conto. In pochi altri momenti della storia l’ uomo è diventato talmente problematico a sé stesso.
Viviamo sulla cresta dell’ onda di imponenti trasformazioni che giungono sì da lontano, sono andate sì maturando secondo una scansione temporale di medio-lungo termine, senonché oggi irrompono, in modo talmente accelerato, quasi fossero improvvise, ci colgono di sorpresa, ci rubano il tempo, mutano la “cifra” dei nostri giorni, senza che ci sia modo di metabolizzarle, addomesticarle, riportarle criticamente dentro l’orizzonte consolidato della nostra cultura.
In maniera particolare, l’incalzante sviluppo delle biotecnologie determina un forte impatto antropologico, una sorta di torsione del modo in cui l’uomo intende sé stesso. L’applicazione o meno delle più sofisticate innovazioni disponibili in campo bio-medico incide in modo determinante sull’ autocomprensione dell’ umanità, sulla concezione di sé e della vita che l’uomo perennemente sviluppa, aggiorna ed approfondisce.
Il nostro essere “umani” non è dato una volta per tutte, ma va inteso dinamicamente, secondo un processo mai sazio di crescente consapevolezza di sé. Per quanto si tratti di un movimento ondulatorio, in cui non mancano cadute e ricadute, talvolta – e tuttora, lo vediamo in questi giorni – prossime ad una crudeltà ferale. Una dinamica che vale, ad ogni modo, per le persone singole e per l’ umanità nel suo insieme.
Il cammino incessante della ricerca bio-medica, ad esempio, e le sue ricadute operative, lasciate correre per il loro verso, fuori dall’ alveo di una consapevole riflessione etica, rischierebbero di ritorcersi contro la loro intenzione originaria.
Sul fronte del “nascere” e del “morire”, nel campo dell’ ingegneria genetica e delle manipolazioni possibili, nell’ ambito delle neuroscienze più avanzate si pone, oggi, una questione di enorme rilievo che interroga, in primo luogo, la medicina – e chi ne fruisce, cioè ognuno di noi – e la spinge oltre il suo confine tecnico, la costringe, spesso suo malgrado, ad interloquire con luoghi del sapere che, di per sé, non le appartengono, ad esempio i territori della filosofia morale o della filosofia politica, in cui si affrontano i temi della libertà e della democrazia. Quella composizione tra cultura umanistica e cultura scientifica, da sempre auspicata, diventa oggi necessaria e dirimente e può trovare il suo fondamento, il momento della possibile sintesi solo nella capacità di riconoscere la ricchezza ontologica, originaria ed incondizionata della persona come categoria fondativa e fulcro della
stessa vita civile.
Vi sono almeno due derive possibili da cui guardarsi lungo questo cammino di riconsiderazione cui l’ uomo e’ chiamato.
*In primo luogo, la falsa percezione – e la tentazione – di essere fondamento di se’ stesso, anzi, per certi e crescenti aspetti, opera delle sue proprie mani. Questo abbaglio cancella il senso del limite e se ciò sembra offrirgli spazi sconfinati, in effetti, mentre per un verso lo seduce, per altro verso, a maggior ragione, lo condanna a quello smarrimento della trascendenza, peraltro già ampiamente in atto. Dal presunto luogo eminente di questa supposta autosufficienza, l’ uomo scivola nella solitudine, in un’immanenza che si chiude irrevocabilmente su sé stessa e gli nega quell’ orizzonte che allude all’ infinito e rappresenta la destinazione ultima che da’ conto delle ragioni e del senso della sua vita.
*In secondo luogo, l’ innovazione tecno- scientifica procede secondo un’accelerazione che la riflessione etica – che dovrebbe accompagnarla e comporla entro un arco di valori umani e civili meditati e condivisi – non e’ in grado, per sua natura, di sostenere.
Ne consegue che, per una sorta di osmosi concettuale che si afferma di per se’, si va diffondendo, nel corpo sociale, la convinzione o almeno la passiva accettazione che, in fondo, tutto ciò che e’ tecnicamente possibile, sia per ciò stesso eticamente legittimo e forse addirittura necessario. Senonché, qui prende forma una formidabile alienazione di ciò che è più autenticamente umano, come se la legittimità del giudizio morale, il discernimento di ciò che è bene e ciò che è male venisse traslato dalla coscienza e dalla interiorità della persona alla mera fattualità della tecnica.
Se davvero dovesse imporsi nell’ opinione pubblica diffusa un tale indirizzo, vorrebbe dire che ci siamo rassegnati ad essere posseduti dalla volontà di potenza che la tecnica incarna.
Un nuovo umanesimo
Abbiamo bisogno di un “nuovo umanesimo” e Papa Benedetto ne scrive nell’ enciclica “Caritas in veritate”.
Un “umanesimo” che non sarebbe tale e tanto meno “nuovo” se non rappresentasse anche il momento di sintesi e di reciproca fecondazione tra l’ umanesimo classico della cultura e della filosofia, delle arti e delle lettere, degli studi storici e delle scienze dell’ uomo e l’ “umanesimo scientifico”, cioè quella complessiva concezione del cosmo e della nostra collocazione in esso che deriva dallo studio delle scienze esatte e delle scienze della natura.
Cosa dobbiamo intendere, ad ogni modo, per “umanesimo scientifico”? Anzitutto, un convinto e pieno apprezzamento della scienza – in particolare, da parte dei credenti – che, anzitutto in ambito biologico, sta rivelando, con una evidenza fin qui sconosciuta, come la stupefacente complessità e, ad un tempo, l’armonia del corpo umano, indagato fin nella sua più intima struttura fisica, non facciano che ribadire la “bellezza” incomparabile dell’ uomo.
Umanesimo classico ed umanesimo scientifico convergono e si alleano nel segno della grandezza e della dignità della persona.
Peraltro, la “consistenza” dell’ umano, cioè la coerenza intrinseca della “forma” che dà ragione della sua funzionalità vitale, convive con quell’ infinita varietà delle sue declinazioni particolari che garantiscono l’unicità irripetibile di ciascun individuo. Per quanto la scienza sia metodologicamente riduzionista, miri le proprie indagini ad aspetti puntuali e circoscritti e fatichi a risalire ad una visione complessiva e compiuta del oggetto di studio, assume un ruolo fondamentale per rendere l’ uomo trasparente a sé stesso.
La politica, le culture che le ispirano hanno gli strumenti concettuali e metodologici per affrontare il quadro complessivo delle trasformazioni che avanzano? Si tratta di una domanda cui non sappiamo ancora rispondere, ma attorno alla quale e’ urgente lavorare.
Alla sfida della “questione antropologica” ogni forza, ogni cultura dovrebbe rispondere accettando il rischio di una vera e propria “rifondazione antropologica” della propria visione del mondo. (Segue)
Domenico Galbiati