Il “limite” rappresenta il cardine di ogni ordinamento democratico. È la categoria essenziale e fondativa dello “Stato di diritto”, che è tale, appunto, nella misura in cui limita il potere costituito e, in nome della legge uguale per tutti, preserva la libertà di pensiero e di parola del cittadino in quanto persona e l’autonomia di giudizio in cui prende forma la sua soggettività unica ed irripetibile.
Se il potere fosse illimitato l’individuo, nella sua singolarità, altro non sarebbe se non un atomo che, sostanzialmente indistinguibile da ogni altro, viene trascinato nel movimento di una massa amorfa.
Il limite, che presiede, anzitutto, a quella divisione dei poteri dello Stato che la Carta Costituzionale attesta in modo del tutto chiaro. Sia pure dopo decenni di vita democratica, oggi non appare più così scontato, come si poteva supporre.
La proposta di “premierato”, l’attacco del Governo alla Magistratura, l’idea avanzata dalla Seconda carica dello Stato di rivedere i confini tra Potere esecutivo e quello giudiziario, lo stesso tentativo, respinto dalla Consulta, di trasferire al Governo, in materia di autonomia regionale, funzioni che sono proprie del Parlamento: sono indizi – molteplici e, dunque, probanti – del tentativo, in atto nel nostro Paese, di mettere in discussione l’architettura istituzionale che assicura libertà ed uguaglianza ad ogni cittadino, in un quadro di sicura garanzia democratica.
Tutto ciò se, per un verso, risponde ad antichi afflati nostalgici che appartengono al folklore di un tempo già condannato dalla storia, per altro verso – e qui la preoccupazione è doverosa – vive nel cuore di una stagione che, per molti aspetti, va adottando categorie interpretative della realtà sociale che si allontanano dalla concezione classica di Stato di diritto.
Il “limite”, peraltro, attraversa e deve attraversare la vita quotidiano di ognuno, nella consapevolezza che la libertà di ciascuno trova il suo confine nella libertà dell’altro. Senonché, il sentimento oggi prevalente, in un certo modo la cifra dei nostri giorni, è , piuttosto, la postura dell’ “illimitato”. E poiché si tratta di una tendenza che si manifesta su più e differenziati fronti, con ogni probabilità, rappresenta davvero, in un certo senso, lo spirito del tempo.
Se c’è, ad esempio – giusto per restare all’immediatezza del nostro attuale vissuto politico – una categoria che si possa applicare, nei rispettivi campi, sia a Donald Trump, sia ad Elon Musk è, con ogni probabilità, appunto, quella dell’ “illimitato”. Almeno come aspirazione, è senza limiti la concezione che Trump mostra di avere del suo potere politico.
Musk è balzato agli onori della cronaca nella veste di icona della potenza della tecnica, cui sembra non essere negato nessun traguardo, perfino su nei cieli dove sfrecciano i suoi missili ed i suoi satelliti. Non a caso qualcuno li ha definiti possibili campioni di una sorta di cultura “neo- futurista”.
Anche in altri ambiti, del resto, ad esempio nel campo delle biotecnologie, il “limite”, per lo più, nel nostro tempo è sofferto come una barriera ostativa, un confine che ci mortifica, nella misura in cui vorrebbe trattenerci al di qua dei radiosi orizzonti che pur sarebbero accessibili, solo che lasciassimo correre e dispiegarsi senza freni le potenzialità di cui oggi disponiamo.
Perfino sul piano dell’intrusione nei meccanismi più riposti della nostra stessa struttura biologica. Non a caso, un campo privilegiato dell’ “illimitato”, è rappresentato dal fiorire del cosiddetto “post-umano” e addirittura dal “trans-umano”. Per non dire delle mirabilia dell’Intelligenza Artificiale.
Anche i processi di globalizzazione concorrono a contraddire il limite. Viviamo un tempo che, per un verso, vorrebbe spingersi “oltre”, come se avvertisse di non bastare a sé stesso e, per altro verso, è profondamente scosso da questa sorta di demone, cosicché vive un sentimento di precarietà esistenziale e di fragilità inquietante.
Dobbiamo compiere lo sforzo di abbandonare la moda dello “smodato” per recuperare atteggiamenti ispirati ad una moderazione, che sia intesa come presupposto di una razionalità ferma e pacata, immune dal fascino effimero di tutto ciò che, senza misura, appare fantastico ed eccezionale.
Domenico Galbiati