Il “potere”, da che mondo è mondo, rappresenta un traguardo ambito, per molti un sogno. La politica ha a che farci in ogni istante, al punto che spesso i due termini, nella mentalità corrente, si sovrappongono, quasi fossero sinonimi.
Del resto, molte volte il disprezzo di cui la politica soffre è accompagnato da un sottaciuto sentimento di invidia che concerne, appunto, il potere di cui chi fa politica sembrerebbe disporre. In sostanza, al di là della difficoltà intrinseca alle tematiche complesse che è tenuta ad affrontare, la politica deve fare i conti anche con il “sentimento”, le emozioni, le reazioni che suscita.
Qualunque cosa significhi, l’esercizio del potere è comunemente considerato fonte di appagamento e di piena soddisfazione. Non a caso evoca la regalità, cioè uno status quasi di alterità ontologica rispetto alle persone comuni,
Questo carattere bifronte della politica – razionale ed emotiva assieme – è fonte di una ambivalenza fastidiosa.
C’è una certa analogia con quanto succede nei sistemi fisici. In quelli ordinati e stabili, gli sviluppi dei processi interni approdano a soluzioni il cui ordine di grandezza è proporzionato alle condizioni d’avvio del processo che si osserva. Insomma, la situazione à sotto controllo. Al contrario, nei sistemi caotici che, per analogia, raffigurano piuttosto bene i nostri attuali contesti sociali, un minimale scostamento delle condizioni iniziali può dar luogo ad una divaricazione incontenibile degli esiti a lunga distanza. Siamo, cioè, di fronte a sviluppi del tutto impredicibili e forse, prima di gettare impunemente la croce sulla politica e sui politici, bisognerebbe tener conto di questa insidiosa ed inespugnabile difficoltà strutturale.
Ma per tornare al punto, va detto che evidentemente non è tutto oro quel che luccica ed il “potere” incorpora un tarlo che può anche restare inoperoso oppure , con il rumore di fondo della sua corrosione lenta, addirittura rendere avvertito chi tale potere esercita – sempre abbia la sensibilità necessaria – della potenziale fragilità del tutto, così da consigliare quella pacata ragionevolezza che si addice alla responsabilità.
In altre occasioni – quando si manifesta in termini di ambizione sproporzionata alle capacità di chi la coltiva, di prestigio e di primato, di smodato culto della propria immagine, di ricerca irrefrenabile di visibilità – il tarlo del potere sa essere pericolosamente devastante. Per fortuna, spesso è il senso del ridicolo a funzionare da primo antidoto contro tali de generazioni che sono, peraltro, più’ frequenti di quanto non si vorrebbe, anche ai piani alti della politica.
Senonché, noi associamo, quasi automaticamente, l’idea del potere, quanto più se esercitato in modo prorompente e rude, deciso e magari sfrontato, all’immagine del mitico “uomo forte”. Siamo sicuri che questa inferenza sia sempre legittima e non corriamo, invece, il rischio di scambiare trombettieri per condottieri? In effetti, spesso l’apparenza inganna.
L’ autentico “uomo forte” – di cui la storia fornisce splendidi esempi – è un soggetto che ha raggiunto una maturità personologica interiore salda e serena. Non ha bisogno di vestire i panni dell’ uomo del destino; anzi l’enfasi, i toni forzati, un certo modo stentoreo di porsi lo infastidiscono, al punto che, per certi aspetti, se non inosservato, passa per una persona comune, senza che la notorieta’ gli scaldi la testa.
Altri, al contrario, recitano la commedia dell’uomo forte; un’ esibizione che fortunatamente talvolta si sgonfia da sé, ma purtroppo, in altri frangenti – ed anche qui la storia è ricca di esempi – dalla farsa si approda al dramma o addirittura alla tragedia. E qui il potere c’entra, eccome! Anzi è dove può raggiungere tratti inquietanti.
Succede, infatti, che soggetti deboli che avvertono confusamente tale loro condizione interiore, ma non la possono ammettere, meno che mai a sé stessi, entrano, quasi insensibilmente e senza volerlo, in un pericoloso avvitamento narcisistico. Forgiano una sorta di esoscheletro che li sostiene e li protegge da un ambiente che, per quanto lo affrontino spavaldi, sentono come larvatamente minaccioso ed infatti, non a caso, almanaccano spesso di complotti.
Noi siamo di più della nostra ragione e dei nostri sentimenti e dobbiamo saperli custodire e regolare con quel sesto senso autocritico che ci protegge da pericolosi arroccamenti autoreferenziali.
Senonché quando questi si impongono, il potere è lo strumento privilegiato con cui costruire queste maschere dell’uomo forte. Gli permette, infatti, di incidere sulla vita delle persone, come se un po’ la ghermisse e se ne potesse nutrire. Come se il potere gli consentisse di addentare, assorbire le identità altrui, assumendole come complemento della propria che, in tal modo, si inebria di se stessa e si dilata a dismisura.
E’ lo stesso meccanismo per cui la visibilità diventa, per il presunto “uomo forte”, un’ ossessione ed un valore di per sé. Infatti, riflette e rimanda la sua immagine ad una pluralità di soggetti che la percepiscono e la ospitano nella loro memoria, così da creare l’illusione di un ampliamento smisurato di se stesso e della propria coscienza.
Questi particolari tipi umani sono, in fondo, abbastanza facilmente individuabili.
Si donano a se stessi, ancor prima che all’uditorio, con una parola icastica e studiata, scandita e prorompente; a tratti il loro sguardo ispirato fissa quel lontano punto all’orizzonte da cui e’ atteso l’ avvento del riscatto di un popolo.
Se ne vedono in giro ancora anche oggi ed e’ bene ed è bene starsene alla larga da tali presunti condottieri.
In realtà sono trombettieri.
Domenico Galbiati