“Maternità” e “surrogata” sono termini antitetici e, dunque, incomponibili. L’uno esclude l’altro. E il fatto che nel lessico popolare – spesso di per sé “veritiero” ben più di quanto pensiamo – ricorra spesso l’espressione “maternità surrogata” significa, in un certo senso, che l’opinione comune, sia pure senza mettere scientemente a tema l’argomento, prende istintivamente le distanze. O, almeno, considera con preoccupazione e scetticismo la “gestazione per altri”, come oggi la si chiama per adottare un linguaggio più forbito, che scivoli nella mentalità e nella coscienza delle persone senza troppi scossoni”.
“GPA”, se non altro, è un’espressione meno azzardata e meno irridente, che concede meno al potenziale inganno che, usato strumentalmente, il linguaggio facilmente può esercitare. Si dovrebbe dire che se è maternità non è surrogata; se è surrogata, non può essere maternità.
Non ha senso ad un concetto alto come quello di maternità associarne un secondo che sta ad indicare una qualità inferiore, qualcosa di parziale, di incompleto, quasi di corrotto. “Gestazione per altri” ha, perlomeno, il pudore di non evocare immediatamente la maternità, di lasciar intendere come si parli solo di una funzione che rientra nel più ampio ventaglio delle attribuzioni che concorrono a definire cosa questa sia davvero ed, infine, confessa, appunto, quella lacerazione per parti separate che, di fatto, la contraddice. Certo, in nessun modo cambia la sostanza!
La questione, ovviamente, va ben oltre il linguaggio con cui la si affronta. Cominciando, ad esempio, ad evitare che a “Gpa” si aggiunga “solidale”.
Anche qui le parole sono artatamente usate per ingenerare letture false o perlomeno improprie, allo scopo di edulcorare – in realtà mistificandoli – argomenti che, al contrario, vanno affrontati a viso aperto. In realtà, anche ove non implicasse nessun passaggio di denaro, nella Gpa di “solidale” non c’è nulla, anzitutto nei confronti del neonato. Nei nove mesi della gravidanza tra quest’ ultimo e la gestante si stabilisce, a cominciare dalla danza ormonale che coinvolge entrambi, un rapporto vitale, e non solo biologico, talmente intimo da proiettare i suoi effetti ed i comportamenti innati che reca con sé ben oltre il momento del parto. Il quale diventa piuttosto che il festoso comparire alla vita di una nuova persona, il momento cattivo di una lacerazione che, lo ammetta o meno, soffre la gestante, ma soffre pure il “frutto del concepimento”.
La maternità non consiste e comunque non si esaurisce su un piano, in un certo senso, tecnico. E’ piuttosto rappresentata da un percorso ad ampio raggio che prende avvio perfino prima del concepimento, si sviluppa secondo una successione di fasi e di momenti che non possono essere disarticolati come fossero parti di un qualunque apparato meccanico. La persona, ciascuna delle persone coinvolte in procedimenti del genere, sono, più o meno consapevolmente, ferite e la loro umanità offesa.
Resterebbe da dire, in altra occasione, quanto debba preoccupare il fatto di dover affrontare temi di questo spessore in un contesto politico di feroce polarizzazione qual è offerta dal nostro sistema politico.
Domenico Galbiati