Ancora una volta assistiamo al fallimento di una banca. Accade in America, con il collasso della Silicon Valley Bank (SVB). La notizia è stata dirompente e inaspettata, anche per quello che ha sempre significato il nome della valle californiana dove sono nati e cresciuti i colossi della nuova era digitale.
Meno note, per ora, sono le possibili conseguenze, anche se le borse europee hanno reagito con forti cadute rispetto a quella americana che invece ha sostanzialmente tenuto. Per avere solo un’idea di quanto sia stato fulminante l’accaduto a un istituto che era tra le prime venti banche americane, è sufficiente considerare a qual punto siano giunte le reti della finanza nel tempo che viviamo.
Non solo le imprese, ma anche l’uomo della strada, oggi può disporre di bonifici, incassi, pagamenti, trasferimenti dalla sua banca ad altre, a clienti e a fornitori, in qualsiasi parte del mondo con un clic dal proprio telefonino. Senza parlare delle migliaia di operazioni al minuto che avvengono sui mercati dei capitali e delle merci.
Il fatto nuovo è che SVB è fallita in due giorni, mentre si accingeva a correre ai ripari aprendo il proprio capitale a un colosso come Goldman Sachs che si era detta disponibile ad intervenire. Erano però necessarie ventiquattro ore per avviare l’operazione e in questo breve lasso di tempo la banca non è stata in grado di far fronte alle richieste dei clienti. La causa scatenante del dissesto, infatti, è già stata ben definita: la banca raccoglieva dalle imprese clienti depositi a vista e li impiegava a medio lungo termine, prevalentemente in titoli di Stato del governo americano. Pagava i depositi l’uno per cento e li impiegava al tre per cento. Gli aumenti dei tassi di interesse hanno provocato una perdita di valore dei titoli in portafoglio (quando si alza la remunerazione, perdono valore i titoli già in corso) l’attivo si è svalutato e il passivo è diventato tutto a vista, complice il panico che in questi casi si diffonde.
Ora ci si chiede se questo tracollo può contagiare altre banche. Il rischio sembra remoto per almeno due ragioni.
La prima riguarda il settore nel quale operava SVB riferito alle imprese “ start up” (cioè appena costituite o quotate, ma ritenute innovative) oppure in imprese di “venture capital ” (società di gestione di fondi a lungo termine in imprese sempre ritenute innovative). Un settore cioè ad alto rischio ma ben diverso da quello dove operano le
banche commerciali o di investimento in Europa, ed in particolare nel nostro Paese, dove banche così settoriali non ci sono.
La seconda ragione è tutta nei sistemi di controllo e di vigilanza in atto nell’Unione Europea (le norme note come “Basilea 3” tradotte in una direttiva) molto più rigide e selettive rispetto a quelle in atto negli Stati Uniti. Il sistema bancario italiano, per altro, è stato recentemente ritenuto adeguatamente solido è affidabile.
Meno remoti sono i rischi di recessione che questa clamorosa bancarotta potrebbe innescare, tenuto conto che sia la banca centrale americana che quella europea sono sulla strada delle restrizioni finanziarie. A meno che gli sconquassi di queste ore non inducano a un ripensamento.
Guido Puccio