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La guerra e la paura che distruggono la politica – di Umberto Baldocchi

Non ce ne stiamo accorgendo, ma tra i disastri della guerra in Ucraina, oltre i costi umani  crescenti, vi è anche una corrosione graduale della politica e dei meccanismi della democrazia, anche nella parte di Europa, che non vive sotto democrazie illiberali, “democrature” o regimi. C’’è una deriva in cui stiamo affondando e da cui potremmo riemergere soltanto ricostruendo quella cultura civile che si fonda sul “diritto di avere doveri”, in un senso un po’ diverso, ma analogo a quello sostenuto dall’ articolo di Domenico Galbiati (Il diritto di avere doveri-5 luglio 2022 Politica Insieme) .

Mentre sulla tolda del Titanic si disquisisce tranquillamente su come migliorare il rapporto elettori-eletti, come superare l’impunibilità delle decisioni politiche , come dare più forza all’ esecutivo e al presidente del Consiglio, come si poteva fare un ventennio fa, non c’è alcuna attenzione all’iceberg  che ci minaccia sempre più da vicino.

Questo iceberg è la malattia delle democrazie, o meglio della politica. E’ una malattia non certamente solo italiana, ma che si diffonde in USA come in Europa e corrode quelle democrazie che per ora ancora si possono contrapporre ai regimi autoritari e a quelle comunità “simbiotiche”( quella cinese in particolare) che paiono sempre più “efficaci” nel gestire le società ed anche orientate ad usare la forza anche fuori dai propri confini come la Russia di Putin, ma non solo essa. Purtroppo aveva ben visto Aldo Moro che , nel 1967, interrogandosi sulle prospettive del mondo,aveva affermato che “il mondo sarà pacifico se sarà democratico”.  E purtroppo alla pace come prodotto della democrazia, potremmo forse oggi aggiungere il rischio di una correlazione inversa: la mancanza di pace, la guerra come solvente della democrazia.

In cosa consiste questa malattia? A mio avviso consiste in una dimensione culturale ed antropologica, che si chiama molto semplicemente “paura” ed essa è, non a partire da oggi, ma oggi con una intensità sempre più evidente, divenuta la sostanza nascosta della “nuova politica globale”.

I primi evidenti sintomi della malattia sono comparsi all’inizio del nuovo millennio, nella indifferenza generale, senza che la società ne prendesse coscienza, se si escludono le rarissime  “eccezioni” peraltro inascoltate – basterebbe ricordare i moniti di San Giovanni Paolo II sulla nuova “acquiescenza” alla guerra.

La prima guerra irakena legittimata dall’ ONU ( per la verità ancora nel XX secolo) , poi l’attentato alle Torri Gemelle, lo scatenarsi di un Islam radicale con un uso imprevedibile e non localizzabile della violenza terroristica,   l’inizio di sconvolgimenti naturali e climatici,  anche se non ancora si trattava allora dello scivolamento di un ghiacciaio, la diffusione di malattie incontrollabili e imprevedibili, apparentemente all’inizio confinate al mondo animale ( “mucca pazza”), l’avvento di una finanza a velocità supersonica e dotata di poteri conformativi straordinari, che in Europa si manifestava coi fenomeni dello  spread della crisi dei debiti pubblici e con l’affondamento economico di uno Stato sovrano, come la Grecia, il moltiplicarsi di conflitti armati condotti da milizie non più inserite entro Stati esistenti. Mancava certo negli anni passatri il rischio di un conflitto nucleare….

Questi gli ingredienti di una “paura” sempre più mediatizzata e comunicata in tempo reale da tutti i media. Certo, un dovere informativo. Ma cosa hanno contrapposto Stati e istituzioni a questa “grande paura”, ancorché esistente solo sotto traccia?  Una politica fondata sul rimedio ex post, una politica di emergenza, una politica di “difesa” contro i rischi crescenti, oppure talvolta una politica fondata sulla negazione del rischio, sulla certezza della stabilità garantita da parametri oggettivi- in UE dovevamo essere rassicurati dalla stabilità della moneta, l’unica stabilità tecnicamente possibile ( così almeno si è creduto), ma capace di tenere assieme il resto. Del resto il commercio ( non la finanza) non ha sempre tenuto in pace il mondo?

La politica in Europa  in questo modo perdeva però di vista i fini comuni, le finalità positive da stabilire in comune ( per avere l’inizio di  una politica di mutualizzazione del debito comune ci voleva la pandemia, per avere una politica ecologica ci volevano i disastri ecologici, per avere una politica di pace ed una politica estera comune  abbiamo aspettato la guerra ai confini europei…)  L’ Europa senza telos , senza una finalità positiva ed umana  ( non tecnologica, come la “società competitiva”) dichiarata, di cui ha parlato Edmund Husserl, è solo un anti-Europa. L’ Europa o è  un compito da svolgere in comune, oppure non è.

Nel contempo però la paura non lascia immutate le persone e i popoli. Essa agisce progressivamente nei gangli della società, li corrode lentamente ma efficacemente. Poco alla volta. La persona dominata o anche semplicemente condizionata  dal panico o dall’’istinto di sopravvivenza si muta in individuo che torna allo stato di natura inteso come stato di guerra “potenziale”, inteso come diffidenza generalizzata e, ovviamente, negazione  dello stato civile, disgregazione di ogni senso di civitas e di amicizia civica.  Il “progresso” dei social ci ha resi più vicini, non ci ha reso più fratelli. E la paura non conosce amici, conosce solo nemici o avversari. In questo ripristinato  “stato di natura”, in cui ognuno è affidato a se stesso ( ed alla precaria e fasulla socialità dei tweet e del web)  , alla sua personale capacità di competere per le risorse e per la vita ( col rischio, come incautamente si dice,  di “restare in indietro” per chi evidentemente non ha saputo correre),   si rischia che l’uomo comune  rinunci al dovere di essere un cittadino informato, dialogante e consapevole e ritorni ad essere un minorenne  in attesa di una guida cui chiedere soltanto la sicurezza, l’unico valore essenziale in un mondo di competitors o estranei .

E’ qui che si apre il grande rischio delle democrazie. L’esigenza della sicurezza può spingere ad accettare governi senza libertà ( la libertà ha perso il suo appeal) o anche governi senza consenso, ma dotati della forza necessaria a imporre le decisioni che producono sicurezza o promettono di produrla.  E’ la logica  dell’emergenza e del degrado civile permanente.  Inutile disquisire sul rapporto rappresentante- rappresentati sulla efficienza dei Parlamenti e sulla loro capacità rappresentativa.  Il vero problema pare quello di scegliere i capi, i governanti, le persone ritenute affidabili per quel compito, nel caso dell’ Italia magari il “sindaco d’ Italia” ( come si diceva anni fa) che tuteli gli interessi di tutti.  Il resto- dell’organizzazione democratica e rappresentativa-  non conta e forse è dannoso.

Il pericolo di questa prospettiva è evidente. Un potere di governo che sa imporre regole a cittadini e Parlamenti riottosi, ma che non è sottoposto  a sua volta a regolazioni.  Un potere in apparenza neutro fondato su competenze personali e affidabilità.  Un potere che potrebbe essere eletto anche democraticamente. Ma la democrazia si riduce ad un involucro, ad una etichetta che nasconde un contenuto diverso.

E’ questa la  prospettiva che diciamo di post-democrazia e che dovremmo contrapporre alle democrazie senza diritti ed agli autoritarismi più o meno dittatoriali.  La democrazia si è sbarazzata della politica cioè della discussione e del confronto delle idee. Di quanto questa “democrazia” è migliore di una democrazia illiberale?  Chi può costruire, entro questa democrazia dei capi “competenti”,  una prospettiva generalistica  che tenga insieme la società? C’è poco da scegliere , resta l’economia, quella che un tempo indicava solo i mezzi. Ora essa indicherebbe anche i fini, proprio nel momento in cui  si è diffusa la convinzione  dell’assenza dei limiti dell’agire umano entro il  progresso finanziario, che riesce a moltiplicare i valori al di là di ogni rapporti con la realtà concreta.

Finirebbe così lo spazio dell’autogoverno umano, della costruzione comune della civitas, della politica. Forse anche lo spazio della costruzione stessa dell’ Europa.  Si aprirebbe un’altra strada, quella di una democrazia identitaria ed “efficace” , laddove i meccanismi della rappresentanza e della partecipazione reale non contano nulla o sono solo fittizi e ciò che importa è l’identificazione collettiva dell’elettore in un obiettivo ( gli obiettivi-bandiera  come jus scholae, reddito di cittadinanza, taglio delle tasse ecc.) in un  partito o meglio ancora in una persona, il che consentirebbe di “credere”( o fingere di credere) che le scelte assunte siano ancora  scelte di libertà.

Altra cosa sarebbe ripristinare il circuito virtuoso che lega rappresentanza parlamentare , responsabilità civile e decisione politica. Per questo sarebbe preliminare riattivare una vera partecipazione . Ma interessa a qualcuno oggi una vera partecipazione politica? E comunque vera partecipazione non potrà esserci se non ricompare lo spazio dei doveri , se cioè non ricominciamo a pensare l’essenza  della reale condizione umana, che non è fatta di competizione o volontà di potenza ( o di progresso), ma di mancanza e di aspirazione a ciò che manca, unica cosa che le permette di avere un senso e di dare senso alla politica. Se la politica ha un fine essenziale questo non può non iscriversi nell’area in cui si combatte l’umiliazione, l’emarginazione, lo spreco delle capacità umane, la fragilità connaturata ad ogni persona, nell’area in cui è necessario operare per realizzare un bene comune, non semplicemente per impedire un male, magari per contrastare un male attraverso un altro  male, come si fa con la guerra.  Questa è poi l’unica dimensione in cui la politica può aspirare a costruire la pace- salvaguardando la democrazia- e a porre termine alla follia, facendoci avvertire il non senso della guerra e di questa guerra di Ucraina, in modo particolare.

Umberto Baldocchi

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