Che il Papa sia assistito dallo Spirito Santo è cosa nota a qualsiasi bravo cattolico: sappiamo tuttavia che se questo speciale aiuto celeste produce illuminazioni spirituali non aiuta necessariamente a comprendere in modo originale ciò che avviene nei bassifondi della storia; ma non è il caso dell’attuale Pontefice che non usa perifrasi complicate prediligendo piuttosto uno stile diretto, a tratti quasi brutale, come un vecchio gaucho peronista che va dritto al nocciolo delle questioni senza perdersi in fumose divagazioni da salotto intellettuale.
Ecco l’icastico “sono pazzi” riferito agli spiriti guerrieri che infiammano politicanti, personaggi degli avanspettacoli e gazzettieri assortiti tutti tesi a convincere le opinioni pubbliche – dove esistono – che la cosa più giusta e desiderabile sia gonfiare gli arsenali, svuotare i granai e sopportare sacrifici non meglio precisati danneggiando tutte le forme di provvidenza pubblica a cominciare dalla sanità (e sono sovente i medesimi che dispensano prediche pensose su “ciò che la pandemia ci ha insegnato”).
Ed ecco “l’abbaiare della NATO ai confini della Russia”; non se ne dolgano gli animalisti che salutiamo con rispetto ma evocare i latrati di un branco di cani affamati esprime un giudizio politico tagliente: una prestigiosa alleanza militare (sulla cui utilità non è peraltro a mio modo di vedere da far questione) quando si ritrova di fronte a certi paragoni qualche domanda se la dovrebbe porre.
Non mi va di elaborare l’ennesima analisi geopolitica; durante la recente pandemia erano saliti alla ribalta i virologi, categoria in precedenza ignota ai più, ma oggi gli esperti veri o presunti di geopolitica hanno ribaltato i palinsesti. Con una differenza: tutti o quasi si rendevano conto che per parlare in modo credibile di virologia occorrono cognizioni scientifiche sviluppate in lunghi anni di studio, ragion per cui gli esperti chiamati a discettare sulla pandemia virologi lo erano per davvero e parlavano con cognizione di causa. È vero, non mancavano i complottisti da tastiera che un giorno negavano l’esistenza del virus, un altro gridavano alla cospirazione internazionale e un altro ancora ci mettevano in guardia contro il rischio del grafene, del 5G e delle sequenze di DNA alieno nei vaccini. Ma la stragrande maggioranza dei politici, dei giornalisti e dei comuni cittadini, sia pure con qualche comprensibile segnale di insofferenza, ascoltava le lezioni degli esperti. Rarissimi i casi di professori di lettere o di ingegneri elettronici sorpresi a ingaggiare polemiche sull’acido desossiribonucleico.
Ma con la guerra in Ucraina è tutto un pullulare di esperti di geopolitica e armamenti, di energia e sottigliezze diplomatiche; non so che cosa accada negli altri paesi ma, insomma, noi italiani non ci smentiamo mai: durante i mondiali di calcio (almeno quando vi prendevamo parte) siamo tutti commissari tecnici della nazionale.
Non sono un generale, un alto diplomatico o un faccendiere (spesso ne sanno di più delle due categorie appena menzionate, o per lo meno fanno finta di saperne e c’è chi gli crede o fa finta di credergli) ma un semplice cittadino europeo e vorrei soltanto condividere con i lettori qualche osservazione: nessuno ha sancito per ora la fine del pensiero critico e neppure della democrazia, anche se qualcuno pensa che ve ne sia un po’ troppa in giro per il mondo; dunque proviamo a farci largo in mezzo alle opposte propagande guerresche.
Innanzitutto la comunicazione: noto con prudente soddisfazione che il manicheismo emotivo caratteristico della prima fase del conflitto sta facendo luogo a ragionamenti più disincantati.
In televisione, nei dibattiti pubblici finalmente in presenza, nelle discussioni con i colleghi, nelle chiacchierate con gli amici non potevi neppure menzionare le possibili “cause della guerra” in corso. Ti fulminavano con lo sguardo e subito ti saettavano la fatidica accusa: filoputiniano! Marchio d’infamia, lettera scarlatta da cucirsi sul disonorato petto; se obiettavi qualcosa come “ma che voto ci saremmo beccati al liceo se, interrogati sulle cause della Prima guerra mondiale, avessimo risposto che il conflitto deflagrò perché l’Imperatore d’Austria (Cecco Beppe per gli amici) era brutto, vecchio e cattivo?”, ottenevi nel migliore dei casi un’infastidita alzata di spalle. Durante le prime settimane la narrazione mediatica, segnata da una sorta di dualismo mistico, ci forniva la rappresentazione di una lotta fra bene e male assoluto, un’esplosione di violenza scaturita dalla malvagità di un uomo solo al comando e si lanciavano grumi di indignazione ed emotività addosso a telespettatori e lettori senza dare loro il tempo di ragionare; un esperimento mediatico utile a trasformare in prospettiva milioni di cittadini in altrettante, attonite casalinghe di Voghera in piena continuità con quello realizzato con successo durante la pandemia: il consumatore di immagini e notizie abituato a scollegare il pensiero per fare posto all’ansia di fronte al nemico invisibile si trovava in una condizione di debolezza, come un convalescente ancora privo delle necessarie difese immunitarie.
Verso la metà di marzo avevo adottato questa tattica: levavo al cielo lo sguardo pensoso e sospiravo con aria sorpresa ed assorta che “la guerra è in realtà iniziata nel 2014 e le tensioni si sono andate accumulando dopo il crollo dell’URSS e che…”. I più mi guardavano con occhio vitreo ma qualcuno pronunciava con un grido acutissimo la parola Crimea e io allora tentennando il capo, scandendo ben bene le sillabe la sparavo grossa e dicevo che sì la conquista della Crimea era stata una palese violazione della sovranità di uno Stato che aveva scelto liberamente la propria appartenenza geopolitica e che insomma quella Caterina II era stata proprio un bel tipino a togliere all’Impero Ottomano il Khanato di Crimea, e se siamo tutti d’accordo la penisola la restituiamo senza indugio al signor Recep Tayyip Erdogan.
Dopo tre mesi di guerra la parola trattativa non sembra più impronunciabile e chi abbozza una ricostruzione storica non viene più accusato di complicità con il massacro del popolo ucraino. Finalmente. Forse si comincia a capire che distinguere il piano del giudizio morale da quello della razionalità analitica non significa scivolare nel cinismo, ma al contrario è il solo modo per offrire ai valori morali un appoggio solido e concreto.
Alla comunicazione di strettissima obbedienza “atlantista” (e ci si dovrebbe chiedere che cosa sia l’atlantismo e se esiste un modo soltanto per esservi fedeli) ha fatto riscontro quella di obbedienza “pacifista”: esportare la democrazia con le armi non è lecito, usarle per difendersi neppure obiettano i pacifisti, la Costituzione ripudia la guerra; ma s’ingarbugliano e finiscono per bofonchiare frasi incomprensibili quando gli si cita l’art.52 che parla del “sacro”dovere di difendere la Patria. Senza inoltrarsi qui in una profonda e intricata discussione filosofica che attinga alle infinite riflessioni dedicate al tema della guerra giusta, da sant’Agostino a san Tommaso, da Vitoria a Kant (comprese le chiose schmittiane a quest’ultimo) e senza moralistiche alzate di dito, si può pragmaticamente ricorrere a una semplice domanda: l’esportazione della democrazia sulla punta delle baionette cui abbiamo assistito negli ultimi trent’anni ha dato i suoi frutti?
I dubbi sono più che giustificati; non tanto perché sia sbagliato il principio, quanto piuttosto perché l’esportazione della democrazia con le armi ha sempre mascherato qualche finalità meno pura e meno nobile. L’intervento armato, pensiamo paradigmaticamente alla Libia, ha bensì contribuito a cacciare i tiranni, spesso spettacolarizzando la loro morte, ma ha lasciato, laddove è stato esercitato, soltanto il caos. E le dinamiche democratiche che s’intendevano suscitare non prosperano nel caos ma nel cosmos, in un “ordine” segnato da norme certe e garantite da una forza in grado di farle rispettare. È in altri termini quella certezza del diritto in cui si compendiano i famosi valori democratico-liberali di cui noi occidentali andiamo giustamente orgogliosi (la libertà è essenziale supporto di una democrazia che sia davvero tale; una libertà, aggiungeremmo, fondata sturzianamente su una “verità” antropologica).
Non questo però ci ha mostrato la storia recente. E al riguardo della vicenda ucraina è lecito chiedersi se l’impegno statunitense, che ha istigato il dog’s barking dell’alleanza militare (fino alle ultime manovre congiunte sul territorio di una nazione che di quell’alleanza non fa parte), la guerra a bassa intensità contro il separatismo russofono nel Donbass, la difesa dogmatica dell’integrità territoriale di uno stato nato frettolosamente sulle macerie fragili e gigantesche dell’impero sovietico e il mancato rispetto degli accordi di Minsk, sia ispirato dagli elevati principi che informano le Costituzioni occidentali o non piuttosto dalla volontà di usare l’Ucraina come spina nel fianco della ricostituita Federazione russa, se non addirittura dalla volontà di controllare le risorse petrolifere e minerarie (non solo carbone ma terre rare, litio, rame) che abbondano in quelle aree sventurate. E chi usufruirebbe di queste risorse nel caso, peraltro improbabile, che si riesca a scacciarne i russi senza scatenare la Terza guerra mondiale (ché i sopravvissuti avrebbero bisogno altro che di litio per le batterie delle macchine elettriche)? La nazione ucraina o la Shell e la Chevron? E le armi di cui gli ucraini sono stati riforniti generosamente nel corso degli ultimi anni (ben prima del fatidico 24 febbraio!), per attaccare i traditori separatisti a che cosa servivano veramente, dal punto di vista del donatore? Soltanto ad affermare il principio sovranista dell’intangibilità territoriale del giovane Stato?
Qui apro una parentesi che riguarda soprattutto il nostro Paese ed è una parentesi lievemente comica: in Italia siamo simpatici e una risata riusciamo sempre a strapparla. Riguarda il sovranismo, parola che nel dibattito politico equivaleva sino a poco tempo fa a una bestemmia. Tutti ricordano la esse sibilata di Zingaretti che chiama a raccolta i sinceri democratici contro questo nuovo Belzebù; e adesso, oplà, la sovranità, l’intangibilità territoriale, il mancato riconoscimento di qualsiasi forma di autonomia rivendicata da una parte della popolazione ritorna ad essere un valore assoluto. Personalmente non mi accaloravo di fronte alla santa crociata zingarettiana contro il sovranismo, anzi la trovavo un tantino ridicola, ma mi ponevo una domanda: quale sovranismo? Perché c’è un sovranismo “buono”, la sovranità popolare definita dalla Costituzione come fondamento dell’esercizio del potere nell’ambito del territorio italiano e un sovranismo “cattivo” intriso di rancore, di retorica patriottarda, quel sovranismo che pencola pericolosamente verso il nazionalismo. A quale tipologia di sovranismo appartiene quello dei leader ucraini che promettono, con il commissario – ahinoi – europeo Borrell a reggergli la coda, guerra ad oltranza finché tutti i sacri territori, compreso il khanato di Crimea non saranno ricondotti sotto la sovranità della nazione ucraina? Che poi qualcuno suggerisca loro, a giorni alterni per giunta, queste rigide prese di posizione è possibilissimo, ma certamente all’interno dell’attuale establishment ucraino agiscono soggetti segnati da una forte intransigenza sovran-nazionalista: e la loro causa è spesso sposata, a casa nostra, dai più fervidi avversari di ogni sovranismo.
Vi è un’altra stortura nella narrazione delle prime settimane di guerra che merita una menzione.
Ci hanno detto che un genio del male aveva, lui solo, autocrate onnipotente, attaccato con il suo esercito un Paese che fino al giorno prima era stato un paradiso sulla terra; la guerra appariva agli occhi del telespettatore una scintilla scaturita dal nulla. Ma in seguito è scattata la sovrapposizione fra l’odiato zar e il suo popolo, la Russia e la sua storia. Evidente contraddizione logica: prima mi dici che la colpa ricade sulle spalle dell’uomo solo al comando, ma subito dopo scatta la chiamata di correo per tutti i russi del presente e del passato. Il termine Zar, attribuito ormai da anni all’odiato presidente della Federazione, suggerisce implicitamente di estendere la riprovazione di oggi agli autocrati del passato; ovvio, chiamare Putin “lo zar” come avviene ormai da anni contribuisce alla sua demonizzazione poiché la parola Zar evoca sensazioni negative ma al tempo stesso quest’appellativo attribuito a colui che ci viene presentato come il Malvagio per eccellenza, addirittura un nuovo Hitler, getta ulteriore discredito, come una risacca, sugli zar del passato e quindi sull’intera storia russa, sul suo popolo, sulla sua cultura.
Le casalinghe di Voghera certo non si accorgono di queste sottigliezze, ma d’altronde non appaiono refrattarie a queste sottili manipolazioni; e così tutto quanto è russo, che venga dal presente o dal passato, è illuminato da una luce sinistra, come se l’identità russa coincidesse con una sorta di stato di minorità. Anche a tutto ciò si tentava di obiettare: la letteratura russa del XIX secolo non è forse un pilastro straordinario del più vasto edificio culturale europeo? E la musica? Ciaikovskij, Rachmaninov (morto esule negli States), Prokofiev , Shostakovich? Niente. Scattava l’anatema. Filoputinisti! Con le labbra piegate in una smorfia compiaciuta e beffarda.
E allora censuriamo Dostoevskij! Vai con la salutare medicina della cancel culture, ultimo ritrovato dell’Occidente al tramonto.
Un amministratore locale caccia dal podio della Scala il grande direttore Valery Gergiev dopo avergli chiesto una frettolosa abiura politica: atto che richiama alla memoria la scena di un vecchissimo film western all’italiana Vamos a matar companeros (con un giovane Franco Nero) dove un aspirante caudillo messicano si informa circa le intenzioni di voto dei peones e senza tante cerimonie ordina di mettere al muro chi si dichiara a favore dell’avversario: a questi livelli eravamo arrivati durante le prime settimane di guerra. Ci si consolava pensando che tutto sommato le autocrazie, quelle vere, usano metodi più efficaci, e se a casa nostra si ricorre a simili espedienti così plateali e in fondo inoffensivi è un buon segno, non saremo mai capaci di degradare oltre un certo limite la nostra democrazia.
Nel corso dell’ultimo decennio da parte degli Stati Uniti si è tentato di ricreare il clima della guerra fredda anche se il comunismo non esiste più da decenni e sono scomparse le divisioni ideologiche che la giustificavano. Perché?
L’establishment americano appare peraltro diviso al proprio interno; e si tratta di divisioni trasversali ai due schieramenti: volendo ragionare all’ingrosso, esiste una linea repubblicana rappresentata dagli eredi spirituali del defunto senatore McCain e da alcune componenti (non tutte) della galassia neocons nettamente distinta da quella rappresentata dall’ex presidente Trump, e nel campo democratico si contrappongono le tendenze obamiane e quelle espresse dal duo Hillary Clinton/Biden; a quanto sembra è proprio il mondo liberal-radical, quell’area in cui albergano la cancel culture e i complessi di colpa dell’Occidente wasp, a manifestare le tendenze più aggressive nei confronti dell’orso russo. È questo un grande paradosso della storia, quasi una riedizione in salsa progressista del vecchio suprematismo yankee.
Forse gli USA fanno fatica a rassegnarsi di fronte al tramonto di quell’unipolarismo che aveva caratterizzato l’avvio del New american century; ma quale strategia sarebbe più saggia e conveniente? Illudersi di poter ancora fare da gendarmi del mondo confidando nella sola forza militare ma senza nessuna capacità di elaborare una forma credibile di governance globale? (ed è proprio al deficit di governance, oltretutto su scala locale, che si hanno da ricondurre i fallimenti iracheni e afghani). Oppure attrezzarsi a coesistere in condizioni di sicurezza in un sistema internazionale sempre più modellato da uno schema multipolare? ( segue)
Andrea Griseri
Pubblicato su Rinascita Popolare dell’Associazione i Popolari del Piemonte