La guerra mondiale “a pezzi” evocata da Papa Francesco, con ogni verosimiglianza, sta evolvendo ed entra in una fase nuova.
Finché restava tale i conflitti si risolvevano dentro “enclaves” locali che, più o meno ampie, non riuscivano a trasmettere la loro onda d’urto ad altri scacchieri, cosicché le tensioni dell’ una e dell’altra parte si potenziassero reciprocamente, fino a provocare una incontenibile reazione a catena che desse immediata evidenza appunto della dimensione “mondiale” della guerra. Senonché, in linea d’aria, solo poco più di duemila chilometri separano Kiev da Gerusalemme, una lotta di liberazione nel cuore dell’ Europa da un altro devastante conflitto armato sulle sponde orientali del Mediterraneo. Fatti i debiti conti, non solo geografici, l’una e l’altra a due passi da casa nostra.
Il fatto è che l’ Europa – con il Mare Nostrum che, per l’ intero decorso delle sue coste dai Dardanelli alle Colonne d’Ercole, ne bagna i confini meridionali – appare inerme ed impotente nel momento in cui i conflitti in corso attestano come sia ancora lì, su quella sponda del Mediterraneo verso cui convergono i paesi arabi e l’antica Mesopotamia, il focolaio delle più gravi tensioni internazionali.
Siamo in presenza di due conflitti le cui aree di risonanza, a prescindere da protagonisti ed interpreti dell’uno e dell’altro, inevitabilmente si sovrappongono e generano una cascata di reazioni che possono recare conforto anche a soggetti che pure – ammesso che sia così – non hanno soffiato sul fuoco del conflitto israelo-palestinese perché l’incendio attecchisse. Putin, in modo particolare, anche senza muovere un dito trae vantaggio dall’attacco di Hamas ad Israele per la sua strategia di destabilizzazione e sovvertimento degli equilibri internazionali. E con lui la sfinge di Pechino.
E’ sempre più evidente che l’Ucraina non sia mai stata, di per sé, il vero obiettivo dell’ aggressione russa, bensì di fatto il pretesto di una strategia di più vasto raggio, che, per la verità, non si faticava a cogliere fin dal febbraio dello scorso anno. E, fin d’allora, su queste pagine se n’era parlato in quel senso. D’accordo, il sogno neo-imperialista della Grande Madre Russia, ma non è tutto qui. Le due grandi “autocrazie” orientali si sentono abbastanza forti da sfidare il mondo? Non possono farne a meno se vogliono crescere? Vogliono cogliere il momento di un Occidente debole e di un’ America incerta? Oppure, è piuttosto vero il contrario?
Non è da escludere che la debolezza che temono sia la loro, le sfide interne che i loro regimi illiberali e dispotici devono vincere, in modo particolare Pechino. Anche Putin, ma in particolare il leader cinese sanno che se un paese cresce, matura una condizione di maggior benessere, supera la soglia di un’economia di mera sopravvivenza, matura inevitabilmente aspirazione di carattere sociale, di ordine civile, domande di libertà che non si possono contenere e, in un sistema di quel genere possono diventare esplosive. Insomma, non è possibile, oltre un certo limite, tenere assieme uno sviluppo capitalistico, sia pure di ordine statale, ed una condizione di repressione dei diritti civili.
A maggior ragione se quest’ ultima è una pre-condizione strutturale di quello sviluppo. Insomma, sanno che alla fine le democrazie vincono perché sono sistemi aperti e la loro forza è la consapevolezza civile degli uomini liberi.
Tanto vale, dunque, rimettere in gioco l’intero quadro e giocare d’anticipo una partita che nessuno può vincere solo sul piano delle tecnologie o della produttività.
Domenico Galbiati