Sulla spiaggia di Odessa, un servizio televisivo di pochi giorni fa, mostrava donne e ragazzi, studenti ed i loro docenti, insomma il “popolo” ucraino, giovani ed anziani, operai ed intellettuali e professionisti insaccare sabbia ed altri portarla in città a formare barriere difensive e barricate per rallentare l’avanzata dei russi, per difendere le loro case, ma soprattutto la loro anima, l’aspirazione alla libertà, l’elementare facoltà di essere vivi ed autentici, la voglia di essere sé stessi, di specchiarsi in quell’ identità storica, culturale, civile, morale che fa di tanta gente un “popolo”.
E’ vero – e come non potrebbe essere vero? – che bisogna evitare i massacri, preservare la vita, soprattutto proteggere i bambini, limitare le distruzioni immani cui stiamo assistendo, ma non è forse altrettanto vero che talvolta o spesso la vita, per essere davvero degna di essere vissuta e non stancamente trascinata, esige di essere messa alla prova, di essere messa a rischio, di essere addirittura sacrificata?
So bene che un discorso del genere oggi sembra addirittura ridicolo e forse lo è, tacciato di retorica, un po’ stupido o molto stupido, sicuramente sconveniente, molto ingenuo, fors’anche infantile, come se fossimo i ragazzi della Via Pal, tutt’al più “retro” e tardo-romantico, per nulla ragionato secondo la scala delle convenienze in cui ciascuno ha pur diritto di accomodarsi in un mondo così intristito e minaccioso. Ma siamo sicuri che sia così?
Il popolo ucraino, la determinazione ferma del “fronte interno”, la spontaneità della loro resistenza ci ricordano un pensiero che affiora dall’antichità classica e solo la cultura cristiana ha portato a maturazione: la vita mostra due versanti “bios” e “zoe’”. Un conto è “stare in vita”, altro è “essere vivi”. Insomma, la vita non si esaurisce nel dato biologico della mera sopravvivenza. La vera vita è “zoe’”, soffio, spirito; è respiro, libertà, capacità di orientare e, ad un tempo, trascendere sé stessi per accedere, al di là del mero accadere delle cose, al senso compiuto del mondo e della storia. Un conto è essere uomini di pace, altra cosa è essere imbelli. Siamo ancora in grado di distinguere questi due profili oppure il nostro sguardo si è fatto opaco al punto di confonderli in una nebbia che li rende indistinguibili?
Al popolo ucraino di resistere non gliel’ ha ordinato Zelensky e tanto meno la Nato, o Biden. Non stanno al gioco di chissà quale potenza, pedine sacrificali di un rito giocato sulla loro pelle, come lasciano intendere alcuni supposti pacifisti che, in effetti, adottano una forma aberrante di cinismo, secondo cui gli ucraini dovrebbero cedere, venire a patti, farsene una ragione.
Comunque si sviluppino le mille considerazioni che si intrecciano, il dato centrale e da cui non si può prescindere, moralmente prima che in termini politici o strategico-militari, è tutto qui: la caparbia, la ferma determinazione a resistere del popolo ucraino. Un fenomeno per i più inatteso, sorprendente, che attesta come vi sia una identità profonda, quel senso di appartenenza ad un orizzonte di destino comune che neppure i decenni di soggezione al giogo sovietico ha potuto scalfire.
Insomma, il popolo ucraino ha molto da dirci, molto da insegnare anche a noi. Ci segnala che la stessa Europa in cui dobbiamo accoglierlo, non si costruisce con quel bilancino degli interessi economico-produttivi che assumiamo come misura del nostro benessere. La si crea se c’è fede ed entusiasmo, se c’è una visione che proietta l’ideale di pace, il progetto di libertà, le aspirazioni di giustizia sociale attorno a cui è nata, al di là dei propri confini.
Domenico Galbiati