Questo intervento segue quello del 17 settembre (CLICCA QUI)
Non è più lecito morire. E se succede bisogna capire dove si nasconda quel tanto o quel poco di “malasanità” che non ha impedito il decesso o, addirittura, lo ha provocato.
Non è uno scherzo. Per quanto, ovviamente, non venga scientemente tematizzato in termini così diretti e crudi, quanto sopra rappresenta una sorta di pensiero, o almeno un larvato sentimento più o meno consapevolmente diffuso e crescente. Un abito mentale vestito in modo acritico, che nasce non solo dall’ammirazione per le
“mirabilia” delle tecnologie bio-medicali innovative di cui fortunatamente disponiamo, ma da qualcosa che, sia pure inconsciamente, ribolle nelle regioni più intime e profonde dell’anima di ognuno.
La supposta “onnipotenza” della medicina – di cui si diceva nel precedente articolo – ha molto a che fare anche con il moltiplicarsi delle aggressioni e delle violenze in corsia. Vi convergono due affluenti che confondono le loro acque in un unico fiume.
Appunto la tecnologia e, nel contempo, la crescente incapacità dei nostri contesti sociali – e, singolarmente, di chi li abita – a metabolizzare il limite ed il suo orizzonte estremo ed inappellabile rappresentato, appunto, dalla morte.
L’onnipotenza della medicina – e, dunque, l’imperizia e la colpa di chi la esercita – è uno dei tanti modi con cui, oggi, cerchiamo di scotomizzare la morte, di escluderla dal nostro campo visivo.
Inoltre, la creduta onnipotenza delle medicina costituisce pure una sorta di tentata “immanentizzazione” del bisogno innato di un qualche ordine sovraordinato ai gesti del nostro quotidiano che, componendoli entro un certo orizzonte che li trascende, conferisca ad essi un senso ed un sapore che altrimenti non avrebbero. E qui – auspice la tecnica – la salute e la salvezza confondono, l’una nell’altra, i rispettivi confini, cosicché la prima ambisce a supplire la seconda, che pure risponde ad un mito originario dell’animo.
Il nostro tempo compiutamente secolarizzato ha espulso la morte dalla vita che una volta, invece, la ricomprendeva.
Sono diversi i fenomeni sociali che si comprendono meglio se li interpretiamo come un modo finalizzato a dimenticare, quasi potessimo fuggirne, il morso della morte.
Dobbiamo avere grande rispetto di tutti coloro che chiedono di ricorrere all’eutanasia. Patiscono una differenza fisica e morale che le nostre comunità non sono più in grado di accostare, comprendere ed alleviare. Pagano un prezzo che, quindi, in un certo senso, grava o dovrebbe gravare anche sulle nostre spalle.
Eppure, anche l’eutanasia, paradossalmente, è un modo di sfuggire alla presa della morte. Non siamo più in grado di fissare i nostri occhi nei suoi e di sostenerne a lungo lo sguardo. Meglio anticiparne il passo ed abbandonarsi consapevolmente nelle sue braccia.
Domenico Galbiati