La Costituzione è una patria.
Nel tempo delle migrazioni e della globalizzazione, la “nazione” per affermarsi come portatrice consapevole ed orgogliosa dei valori che ha maturato nel decorrere della sua storia deve accettare e vincere la sfida di diventare “patria” anche per chi non è nato sul suo suolo, eppure si riconosce in quella condizione di libertà che, negata altrove, la nostra Costituzione garantisce.
Come la nazione è tale anche quando non si componga nell’unità politica di uno Stato e si protende oltre il confine geografico di un Paese, anche la patria trascende il profilo territoriale e consiste di un patrimonio storico, morale, culturale e civile, che, nato dal vissuto e dal cuore delle persone e delle comunità che le appartengono, conforta e sostiene l’identità di ciascuno, ma pur sempre in costante riferimento all’ universalità del genere umano.
Non basta evocare la “nazione”. Bisogna capire come ne decliniamo il sentimento, il valore ed il compito in un determinato momento storico. Se ne può dare una lettura regressiva e chiusa, secondo una postura difensiva, sicuritaria, ispirata ad un atteggiamento di autoreferenzialità e di possesso geloso ed esclusivo del patrimonio che le appartiene. Ma è altrettanto possibile interpretarla come l’arricchimento che un popolo offre ad una collettività più vasta secondo un orientamento di reciprocità solidale.
L’ecatombe di Cutro è, in un certo senso, la metafora di questa divaricazione. La protezione della vita o piuttosto l’occhiuta difesa dei propri confini, che, in questa accezione, diventano una gabbia in cui, contro ogni apparenza, anche la nostra libertà si dibatte fino a subire, a sua volta, un vulnus irreparabile. Siamo di fronte ad una tragedia nel senso classico del termine.
La fattualità catastrofica in cui culmina l’evento è sottesa da un conflitto drammatico ed insanabile che questa volta tocca, addirittura, la coscienza, il cuore, l’ auto-comprensione di un popolo, del nostro popolo e dei popoli degli altri paesi sviluppati, a cominciare sicuramente da quelli europei. Quelle decine di cadaveri sparsi sulle spiagge, le salme dei bambini che il mare dopo la furia che li ha uccisi, si potrebbe dire, è come se li avesse cullati per giorni prima di restituirceli, i cadaveri che il mare ha inghiottito per sempre, sembrano quasi il sacrificio umano che rendiamo, con un rito talmente cruento, al dio Moloch del nostro insaziabile progresso materiale. E’ come se venissimo posti di fronte a quella contraddizione irrevocabile, cui i grandi poeti della tragedia greca assegnavano il compito di sondare l’interiorità più riposta degli uomini e dei popoli.
Non basta la contabilità dei barconi e quella sorta di “partita doppia” dei sopravvissuti e dei morti che il Ministro dell’Interno ha recitato a Montecitorio. Non governeremo il fenomeno migratorio se non riusciremo a sentirlo come una ferita profonda che, prodotta da una diseguaglianza abissale, scuote e provoca la consapevolezza che abbiamo di noi stessi.
Domenico Galbiati