Per meglio capire le nuove dinamiche delle elezioni presidenziali Usa è opportuno compiere un salto indietro nel recente passato.
Nella giornata del 12 luglio si chiudeva il vertice Nato riunitosi a Washington con una forte contrapposizione nei confronti di Mosca e, in tono minore, di Pechino. Nelle discussioni si era sottolineata l’urgenza di rimettere in sesto l’Appeanza aumentandone gli effettivi e confermando la sua unità nel contrastare l’offensiva russa in Ucraina. Per non allarmare Mosca, il Segretario alla Difesa Lloyd Austin aveva chiamato il suo omologo russo per evitare il rischio di ulteriori tensioni. Riguardo la Cina, Washington aveva sottolineato la sua crescente preoccupazione, considerandola oltre che una rivale anche una minaccia.
Il presidente Biden, mai come prima nel mirino di chi non lo riteneva più idoneo ad esercitare le sue funzioni, aveva regolarmente tenuto la propria conferenza stampa presso la NATO, fatta eccezione per due gravi lapsus. In questo intervento, aveva illustrato la sua visione sui grandi temi internazionali. Ma questo non era servito a calmare le acque nei suoi confronti perché ci si è messo di mezzo anche il mondo dello spettacolo e dei media, entrambi rappresentanti di una élite importante per i Democratici: tutti chiedevano la sua rinuncia alla corsa presidenziale.
Kamala Harris è rimasta prudentemente in silenzio preferendo non esporsi. Come vice-presidente restava il candidato naturale per assumere la Presidenza. La sua sola pecca era quella che, in quattro anni di mandato, non aveva mai avuto l’opportunità di mettersi in luce, dato che Biden non le aveva mai concesso molto spazio.
Per molti osservatori la questione Biden era soprattutto un problema di percezione e ricordavano che già in passato era solito commettere gaffe e confondersi sulle parole. Nulla di nuovo dunque, salvo l’età. Tant’è che la Casa Bianca cercava di tranquillizzare gli animi affermando che egli restava tutt’ora la miglior carta del Partito Democratico, rappresentandone inoltre il punto di equilibrio tra le varie componenti. Va aggiunto che il Presidente continuava ad incarnare una politica estera molto chiara e, come “comandante in capo”, è sempre stato convincente. Ha svolto un buon primo mandato e l’economia americana è in buona salute grazie anche ad importanti investimenti in campo ecologico.
Il 13 luglio Trump si era recato in Pennsylvania per tenere un comizio. Poco prima che iniziasse a parlare, un ventenne è salito sul tetto di un edificio poco distante armato di un fucile d’assalto e gli ha sparato contro per tre volte facendo un morto e due feriti gravi. Trump è rimasto colpito di striscio ad un orecchio. La sua reazione è stata delle più cinematografiche, con il pugno alzato in segno di sfida, il volto insanguinato e alle spalle la bandiera americana. La fotografia ha fatto il giro del mondo e con quella bandiera al vento ha ricordato la famosa immagine scattata ad Iwo-Jima sulla vetta del monte Suribachi. Presto è apparsa stampata anche su molte magliette e grazie a questa immagine si è entrati nel martirologio.
Nel fervente clima elettorale che sta caratterizzando questa campagna, l’attentato ha assunto per molti un aspetto religioso, se non quasi messianico: egli è stato salvato per volontà divina, il che ne fa un predestinato. A confermarlo le stesse parole di Trump: “solo Dio ha evitato l’impensabile”. Facendo passare tutto il resto in secondo piano ed illuminandolo dell’aureola di chi è stato toccato dalla mano del Signore. L’aspetto del sacrificio suscitato da questi colpi di fucile ha fatto di Trump una vittima e un combattente allo stesso tempo, e ne ha indubbiamente rilanciato la candidatura.
A venirgli ulteriormente in soccorso, la notizia che un giudice federale, da lui stesso nominato, aveva ordinato l’annullamento del processo sul trafugamento di migliaia di documenti coperti dalla massima segretezza rimossi dalla Casa Bianca e portati nella sua villa di Mar-a-Lago in Florida.
Erano appena passate 72 ore dall’attentato di Meridian che si apriva a Milwaukee nel Wisconsin la Convenzione del Partito Repubblicano nella quale si confrontavano due Americhe. Nel corso dell’evento Trump ha ottenuto la nomina ufficiale del partito incassando i voti di 2388 delegati su 2429. Gli astenuti sono stati 41. Per ottenere la candidatura erano necessarie 1215 preferenze. Come sempre in queste occasioni, a trasparire è un tono di allegria, vivacità e spensieratezza. A regnarvi sono spesso il pittoresco e il folcloristico.
Trump ha pronunciato il suo discorso di accettazione. Dal podio ha esordito promettendo alla platea di diventare il Presidente di tutti gli americani e non solo della metà. Ha poi detto che Dio è stato al suo fianco quando gli hanno sparato, per aggiungere poco dopo che non intende demonizzare le idee dell’opposizione, ma che comunque il suo compito è quello di salvare il paese da un governo incompetente e fallimentare. Una volta eletto, il suo impegno sarà quello di riportare la pace nel mondo e porre fine ad ognuna di quelle crisi internazionali figlie dell’azione del precedente governo: i Democratici hanno distrutto il paese e lui, con un paio di telefonate, farà la pace.
È stato duro riguardo alle politiche ambientali, affermando che con lui riprenderanno le trivellazioni. Riguardo l’immigrazione illegale, egli ne impedirà l’ingresso e, per meglio riuscirci, terminerà la costruzione del muro da lui iniziata lungo la frontiera con il Messico. Farà la deportazione più grande della storia. Ha poi parlato di autarchia, di dazi doganali, di tagli alle tasse e di sgravi fiscali.
Se questo suo discorso mostrava che egli rimaneva sempre lo stesso Trump del passato, in alcune sue parti si è presentato con nuove parole e un tono diverso dando l’impressione di volersi mostrare più saggio che in precedenza, a cominciare dalle sue dichiarazioni che sarà il Presidente di tutti gli americani, indipendentemente dal colore, dalla religione, dalle opinioni ed evitando di insultare chi non si trovasse d’accordo con lui. Che l’attentato, ponendolo di fronte alla fragilità della vita ed alla sua mortalità, lo abbia reso più saggio? Vedremo.
A vedere i filmati della Convenzione, con la passerella di una variopinta parentela fatta di mogli, figli e nipoti, molti amici inclusi, c’è da domandarsi se il Partito repubblicano non si sia mutato in un’impresa di famiglia. Questo a chi vive in Italia qualcosa dovrebbe ricordare. Sappiamo intanto che Trump intende consolidare il suo potere e ha già avvisato che sostituirà 50 mila impiegati governativi.
Dall’armadio, intanto, usciva Elon Musk, dichiarandosi trumpiano ed offrendo la cifra di 45 milioni di dollari al mese come contributo elettorale. Sempre dal mondo dell’alta tecnologia ecco apparire anche David Sacks. A farsi vivi persino alcuni capi di fondi di investimento. Che si stia facendo avanti uno plutocrazia di affari che ha bisogno di ordine?
Rispondendo alle attese dei democratici, e per evitare ulteriori incertezze, Biden ha annunciato che avrebbe dato il suo appoggio alla candidatura della sua vice Harris. Nel dare al suo partito una possibilità di vittoria, egli aveva reso l’ultimo servizio al paese. Non esente da qualità, la Harris non era ben vista da molti nel partito e non poteva certo definirsi popolare. Biden l’aveva tenuta nell’ombra e lei non si era distinta nell’affrontare il problema dell’immigrazione illegale. Più popolare tra i giovani che tra gli anziani, le veniva rimproverato di esprimere una visione politica derivante dalle sue origini urbane. Non restava ora che attendere l’imminente Convenzione democratica di Chicago e l’arrivo dei suoi 3900 delegati: nel sistema elettorale americano l’ultima parola spetta ai Grandi elettori.
Del tutto spiazzato dal gesto di Biden, e non poco preoccupato da questo rovesciamento della situazione, Trump non aveva perduto tempo a dare addosso alla Vicepresidente descrivendola come una pazza e una corrotta che non fa che ridere: con un simile avversario per lui la vittoria sarebbe stata più facile. Per quel che riguarda i fondi disponibili per la campagna elettorale, i Repubblicani ne hanno presto contestato l’utilizzo sostenendo che non era alla Harris che spettavano e che, quindi, non le potevano essere trasferiti.
Nel corso dell’ultima settimana di luglio iniziava a cadere la reticenza di molti finanziatori del Partito Democratico e giungeva la promessa di 45 milioni di dollari da parte dei piccoli finanziatori. Era ormai evidente come la Harris avesse un appoggio sufficiente da potersi considerare il candidato ufficiale del partito. Conoscendo ormai piuttosto bene il suo avversario, è partita all’attacco descrivendolo come un ladro, un truffatore, un bugiardo ed un predatore sessuale. Non stava perdendo tempo.
Il Partito Democratico sembrava aver ritrovato la sua unità: anche se ancora mancava il consenso degli Obama, la Harris aveva incassato l’appoggio del senatore Bernie Sanders insieme a tutti i giovani dell’ala sinistra del partito. I contributi dei piccoli finanziatori erano saliti a 80 milioni di dollari. In risposta, e conscio di perdere il vantaggio dell’età e del vigore, Trump lanciava alla Harris l’accusa di omertà riguardo lo stato di salute di Biden, che già dall’ottobre del 2021 all’interno della cerchia della Casa Bianca si sapeva non stesse bene. L’accusa era quella di aver taciuto il fatto, cosa che il suo ruolo di Vicepresidente non gli imponeva certo di fare.
Forte della sua carta principale, la ritrovata unità del Partito democratico, il 23 luglio, la Harris inaugurava la sua campagna elettorale recandosi a Milwaukee, nello stesso luogo dove si era svolta la Convenzione repubblicana. Le sue donazioni erano salite a 100 milioni di dollari, il 62% delle quali proveniva da soggetti che donavano per la prima volta. I due presidenti del Congresso, Chuck Schumer e Hakeem Jeffries le avevano dato pubblicamente il loro sostegno e così anche il sindacato dei metallurgici. George Soros, Reid Hoffman e Melinda Gates, ex-moglie di Bill, avevano anche loro dato il proprio appoggio. A questi si aggiungeva anche l’attore George Clooney, grande sostenitore del Partito Democratico con un ruolo importante nella raccolta fondi. Vi era da prevedere una campagna delle più aspre.
Il 6 agosto, a pochi giorni dalla Convenzione democratica, la Harris ha sciolto la sua riserva riguardo la scelta del vicepresidente. Le serviva un uomo bianco dell’età giusta ed in grado di rivolgersi ad un elettorato per lei difficile da raggiungere. Doveva allo stesso tempo evitare di attirare troppa attenzione su di se ed esserle complementare. La scelta è caduta su Walz: bianco, 60 anni, con un passato da insegnante, ex-membro della Guardia Nazionale, 12 di attività alla Camera, buona conoscenza dei meccanismi del Congresso e poco conosciuto dagli elettori in generale.
Dalla sua villa di Mar-a-Lago, Trump, di fronte alla nuova dinamica acquisita dalla campagna elettorale dei democratici, decideva di riprendere in mano la situazione proponendo tre dibattiti su altrettante emittenti televisive da svolgersi il 4, il 10 ed il 25 Settembre. Ha poi sostenuto che Biden fosse stato vittima di un complotto ordito in seno al Partito Democratico per sottrargli la presidenza. Affermazioni simili indicano quanto fosse decisamente seccato, se non addirittura frustrato, di fronte all’essere costretto a realizzare che la sua rivale stava conquistando quella popolarità che a Biden era venuta a mancare.
Di qualche interesse l’intervista di due ore fatta da Elon Musk a Donald Trump, non tanto per i suoi contenuti quanto per un aspetto folcloristico. Visionario del hi-tech, uomo più ricco del mondo, non può certo vantare di essere anche un giornalista e ci si chiede se non abbia avuto nulla di meglio da fare. Un incrocio tra un folletto e un pagliaccio, egli non può dirsi esperto di politica, ma sembra voler aspirare ad un ruolo di leader ideale o di consigliere della destra mondiale e dell’internazionale reazionaria. Solo per menzionare l’Italia, quando vi si è recato è stato ospite della Meloni alla kermesse di Atreju, per poi andarla a trovare insieme alla figlia nel suo ufficio di Palazzo Chigi. Visto che c’era, ha poi accettato l’invito di Salvini facendogli visita presso il suo ministero. Dal 2001 ad oggi sembra volersi dare un ruolo politico attivo, cosa che, con i suoi mezzi di comunicazione e social media, non può che dargli un posto nella costruzione/deviazione dell’opinione pubblica.
Nel corso di questi 120 minuti di diretta audio su X non è stato fatto nessun annuncio di rilievo né si è potuto ascoltare alcunché di importante o di nuovo. Tra le sue varie affermazioni, Trump ha detto di essere persuaso che l’Iran intende attaccare Israele e ha lodato Maduro esaltando le sue capacità di far rispettare l’ordine a casa propria. È stato infine lusinghiero con Musk, affermando che aveva fatto bene a licenziare qualche migliaio di lavoratori scesi in sciopero contro di lui. Si è dichiarato a favore delle energie fossili, pur compiendo un passo indietro sulle auto elettriche che Musk produce e vende. Hanno entrambi preso di mira la Harris, non reputandola all’altezza di discutere con i leader internazionali, descrivendola inoltre come troppo di sinistra.
Quest’intervista è andata tutta a svantaggio di Trump: non erano visibili i suoi movimenti, i suoi gesti, le sue pose e le sue espressioni. Si è sentita solo la voce di un candidato stanco, spesso biascicante e con una padronanza della lingua non certo all’altezza di quello che potrebbe essere il suo ruolo. Elon Musk non gli ha fatto nessuna domanda incalzante o provocatoria, anzi, lo ha solo lodato. Ne è venuto fuori un candidato poco originale, in difficoltà, quasi noioso ed incapace di dire qualcosa di nuovo, che si trova ad annaspare di fronte al crescente consenso dell’avversario. Nessuna sorpresa dunque: un’impresa che, alla fine, è andata più a favore di Musk, candidatosi a revisore dei conti della nazione, che di Trump. Non si può che chiudere la cosa dicendo che con il pubblico bisogna essere chiari ed evitare di dire sciocchezze.
La Harris intanto progressivamente iniziato ad esprimere una visione più chiara e concreta di quello che sarà il suo programma economico che mira a conquistare le classi medie dando loro maggiori speranze. Queste le sue parole: “La chiave per creare l’economia delle opportunità è investire sulle nostre classi medie”. Le ha descritte come quella base sulla quale si fondano la prosperità, la crescita e la stabilità del paese. Vanno dunque rinforzate per proiettare la nazione in un futuro più prospero, sicuro e migliore. Allo scopo, ha proposto una serie di linee guida che andranno messe a fuoco e definite più accuratamente.
Di queste classi medie è innanzitutto necessario consolidare il potere d’acquisto, da qui la decisione di diminuire la pressione fiscale sui meno abbienti, concedere dei crediti d’imposta per le nuove nascite e varare un programma per rimediare all’emergenza abitativa che colpisce i meno fortunati. Si tratta di promuovere la costruzione di tre milioni di alloggi a prezzo accessibile entro la fine del suo mandato. Inoltre, moderare i prezzi delle derrate alimentari e rendere più accessibili alcune categorie di medicinali da destinarsi soprattutto alla parte più anziana della popolazione: ha deciso così di aprire un’indagine al fine di sorvegliare e contrastare le prassi scorrette delle grandi società.
Per molti americani il problema oggi è quello del carovita e dell’inflazione, che rappresenta per loro una sfida. Da qui la volontà di consentire a tutti i cittadini al di là della loro origine e condizione economica di poter competere e prosperare.
Pur mancando ancora alcuni dettagli specifici su un certo numero di proposte da approfondire nel corso delle prossime giornate elettorali, diventa perfettamente comprensibile la scelta di Tim Walz. Per esperienza di vita egli è un perfetto esempio di quel ceto medio degli Stati centrali, di quell’America rurale che ne fa la scelta migliore per rivolgersi a coloro che si sentono trascurati e si preoccupano del futuro. Pochi come lui avrebbero la capacità di rivolgersi a questa America, di farsi sentire e di persuaderla.
La Harris è riuscita in breve tempo ad uscire dall’ombra di Biden, a ricavarsi uno spazio proprio e decollare: è sbocciata, suscita entusiasmo ed è stata capace di restituire fiducia ed unità al partito. In poche parole, dalla rinuncia di Biden le è riuscito di acquistare un formidabile slancio politico e trascinare con se i militanti democratici convinti adesso di potercela fare.
In una recentissima dichiarazione prima di un comizio nella cittadina di Howell in Michigan, Trump aveva proposto di prendersi Elon Musk come ministro o consigliere, esternando poi su dazi a tutto spiano e deregolamentazioni su ambiente e cambiamento climatico. Howell ha una storia legata al Ku Klux Klan e lo scorso mese, al grido di “Heil Hitler”, ed esibendo cartelli con la scritta “White Lives Matter”, aveva sfilato un gruppo di suprematisti bianchi. Nei pressi, altri invece gridavano “Noi amiamo Hitler, noi amiamo Trump”.
Trump e Musk sono entrambi esperti nell’arte della provocazione e continuano a girarci intorno. Va ricordato che il primo era stato bandito da Twitter e Musk, una volta acquistato il social network, poi ribattezzato X, gli aveva offerto una tribuna d’onore. Se eletto, Trump vorrebbe ora immetterlo nella sua cerchia di governo. Una volta che a Musk era stato chiesto cosa pensasse del ruolo di Presidente, lui aveva risposto che gli sarebbe stato stretto: “è come trovarsi su una barca dai remi troppo corti” e che la sola differenza tra lui e chi occupa la Casa Bianca è solo il fatto di non poter dichiarare guerra.
Sono entrambi inebriati dal potere e per ottenerlo e stare insieme sembrano disposti a tutto, al punto di smentirsi e rinnegare se stessi. Un esempio: Musk fino al 2020 si dichiarava democratico, mentre Trump aveva fatto marcia indietro sulle auto elettriche, parte importante degli affari di Musk. Se quest’ultimo non dovesse partire per Marte, che non vi sia un riavvicinamento ideologico e strategico tra i due?
Mentre a Chicago si svolgeva la giornata, Trump portava la sua campagna in Arizona, alla frontiera con il Messico. Appresso a lui una signora alla quale il figlio era stato ucciso in un episodio di violenza con i migranti. Data l’occasione, accusava la Harris di voler spalancare le frontiere all’immigrazione clandestina. Rivolgendosi al suo pubblico e parafrasando il copione di un suo celebre programma televisivo, ha detto di lei: “Siamo sull’orlo del precipizio, ne abbiamo abbastanza, non ne possiamo più. Compagna Kamala fuori, sei licenziata! Non vai bene!”.
A complicare le cose la rinuncia di Robert Kennedy jr, figlio di Bob Kennedy, ucciso nel corso della campagna presidenziale del 1968. Sarebbe stato disponibile a portare i suoi voti a Trump in cambio di un ruolo nella sua amministrazione. Viste le tradizioni politiche della famiglia, saldamente democratiche, un imbarazzante scivolone.
Questo Kennedy è noto per essere contrario alle vaccinazioni e per la sua tendenza a propagare teorie complottiste. Tra i motivi che l’hanno portato a lasciare il Partito Democratico, dissidi sulla libertà di espressione e la guerra in Ucraina. Per dare un’ulteriore possibilità a Trump ha dichiarato che si sarebbe fatto da parte negli Stati in bilico: i sondaggi lo davano tra il 4 e il 5% dei consensi. La sua famiglia invece appoggia Kamala Harris.
Le quattro giornate della Convention democratica di Chicago di fine agosto hanno resuscitato lo spirito di Obama del 2008 e la speranza di un paese che può cambiare ed i cui interessi verranno posti più in alto di quelli partitici o personali. Il Partito Democratico si è mostrato unito e pieno di fiducia. In un clima di fervore, e candidata ufficialmente alla Casa Bianca, la Harris ha dichiarato che sarà il Presidente di tutti gli americani, indipendentemente dal colore, dalla religione, dal partito e dalle persuasioni.
Alla fine, ciò che doveva accadere è accaduto e su tutto ha trionfato un desiderio di unità. Questa Convenzione è stata un indubbio successo, ma andrà ora assorbita con la coscienza che è calato il sipario su uno stato di grazia che non è destinato a durare a lungo. Sarà necessario affrontare il ritorno alla normalità, conservare il vantaggio fino al dibattito del 10 Settembre e reggere per il tempo che resta in attesa del voto.
Non sarà una campagna facile ed indolore anche se la Harris è stata accolta con entusiasmo da una nazione stanca di vedere due vecchi contendersi la Presidenza. A decidere le elezioni saranno soprattutto quegli Stati in bilico per l’indecisione di molti elettori. Nel 2020 Biden aveva vinto in uno di questi, il Michigan, con uno scarto di 20 mila voti. In questo stesso Stato vive la più importante comunità araba d’America e se vi è qualcosa che ha proiettato un’ombra sinistra sulla campagna elettorale è stata la tragedia di Gaza e della sua popolazione che ha suscitato indignazione e, allo stesso tempo, commozione. Per i democratici si tratta di una grande sfida. In attesa di un accordo che non sembra arrivare, la Harris dovrà trovare le parole adatte per rispondere a queste polemiche. Strano a dirsi, ma è forse su Gaza che potrebbero giocarsi gli esiti di questa elezione.
Gli americani non chiedono insulti o risse da cortile: vogliono fatti, cifre, idee. La Harris deve convincerli non solo a darle il voto ma poi a recarsi alle urne. Anche se tutto è andato per il meglio, la Convenzione non è l’America. Il partito ha superato le sue difficoltà e si è unito. Servono adesso dichiarazioni più precise per conservarne lo slancio, soprattutto la definizione di un programma economico a beneficio di quei segmenti dell’America che si vedono poveri od impoveriti e che hanno perduto fiducia nel sogno americano. Fondamentale dunque convincere le classi medie.
Cruciale sarà l’apporto degli Stati chiave nei quali si sono sempre giocati i risultati delle elezioni americane. In quei vasti territori gran parte degli elettori dice di non appartenere a nessun partito in particolare e potrebbe votare per l’uno come per l’altro. Gran parte di questi con tutta probabilità decideranno immediatamente prima delle elezioni.
Vorrei chiudere con un riconoscimento a Biden. La sua leadership e visione avrebbero meritato un secondo mandato anche se, a dire il vero, il suo è stato un bilancio che ha diviso il popolo americano. Le circostanze sono però state tali che per rendere servizio alla nazione e difendere la democrazia dalle insidie di Trump ha preferito passare il testimone alla nuova generazione. Fino a che ne ha avuto la possibilità ha retto il timone. Sotto crescenti pressioni è stato poi costretto a gettare la spugna.
I suoi quattro anni di presidenza sono stati tutto sommato positivi, soprattutto se si ricorda che al momento del suo insediamento l’inflazione aveva raggiunto livelli che non si erano visti da quarant’anni. Oggi la disoccupazione ed i tassi di interesse sono scesi ed è probabile che a breve la Federal Reserve possa decidere per una loro ulteriore diminuzione. Ad aumentare invece sono stati i salari, che in molti settori hanno fatto progressi. Dal momento del suo insediamento alla Casa Bianca è riuscito a far passare un progetto di legge per combattere la pandemia, largamente sottovalutata da Trump. Trascorso qualche tempo, tra non poche difficoltà ha avuto successo nel far passare un programma di investimenti in infrastrutture e di rispondere alle sfide del cambiamento climatico.
Ha lasciato dietro di se l’American Rescue Plan mettendo a disposizione 1900 miliardi di dollari, equivalenti a circa il 10% del Pil, per rilanciare l’economia. A questo si è aggiunto l’Infrastructure Investment and Jobs Act, corrispondente ad altri 1200 miliardi di dollari. Di non minore importanza anche l’Inflation Reduction Act, 369 miliardi di dollari in 10 anni per sostenere l’intero settore dell’economia verde, incoraggiare l’uso delle energie pulite e diminuire le emissioni di anidride carbonica. Ha inoltre consentito la rilocalizzazione nel Paese di numerose industrie.
Ha così lasciato il Paese industrialmente più forte, resuscitando un intervento dello Stato tale da ricordare il New Deal rooseveltiano e la Great Society di Johnson. Prima di lui, a seguito della presidenza Reagan, vi erano stati 40 anni di deregolamentazione e liberismo. Adesso, dopo un periodo di crescita, troviamo un’America con più uguaglianza come lo si è potuto vedere dal suo venire incontro alle esigenze degli studenti e dalla sua difesa delle classi medie. Ha protetto la Costituzione dagli attacchi di Trump lasciando in eredità un paese più forte e moderno.
In politica estera, dopo il quadriennio dell’imprevedibile Trump si è assistito ad un ritorno alla credibilità accompagnato da una ripresa del multilateralismo: ha rimesso gli Stati Uniti sul giusto binario e ricucito i rapporti con l’Europa e la Nato. Si è sempre schierato in difesa della democrazia e dei diritti umani ed è venuto in soccorso all’Ucraina dopo l’attacco della Russia. Aveva chiaramente sottolineato che l’impegno degli Stati Uniti sarebbe stato quello di costruire un futuro positivo insieme agli alleati e che da soli non sarebbero potuti andare da nessuna parte.
A seguito dei fatti del 7 Ottobre e malgrado le continue difficoltà nei suoi rapporti con Netanyahu, ha appoggiato in modo consistente Israele pagandone lo scotto con dure critiche sulle vicende di Gaza. Con la Cina si è mostrato deciso e non ha ceduto né alle minacce di Putin né alle forzature di Pechino. Coerente coi suoi princìpi ha denunciato le autocrazie e promosso l’importanza della democrazia. Molto deludente invece la gestione del ritiro dall’Afghanistan.
Per concludere, a seguito dei due primi anni del suo mandato e a chiusura delle elezioni di medio termine, Biden aveva sorpreso tutti con un risultato inatteso che ha sfidato le più cupe previsioni andando in direzione opposta a quella tendenza che solitamente punisce il partito al potere.
Nel corso dei suoi quattro anni ha riportato stabilità ed equilibrio sottolineando quella che è in fondo una vocazione centrista. Si è lasciato appresso un Paese più solido, un partito più unito ed ha fatto intendere che gli Stati Uniti non rinunceranno ad essere i primi ma che guideranno più con la forza dell’esempio che con l’esempio della forza. La critica che gli si potrebbe fare è di non avere avuto più immaginazione, di aver mancato a volte di coraggio e di non aver saputo uscire dagli schemi. Credo che alla fine sarà la Storia a rendergli il dovuto merito.
Edoardo Almagià