La pace tra i popoli oggi sembra ormai divenuta una utopia, quasi un sogno irrealizzabile. La parola finale sembra spettare ancora una volta non alla ragione, ma alla forza delle armi, cioè al vincitore della guerra, tornata ad essere l’ antico, barbaro e blasfemo “giudizio di Dio”. Solo a guerra “vinta” si potrà organizzare la pace, si dice. Nella guerra “ibrida” ( cioè insieme militare ed economico-finanziaria) in corso in Ucraina sembrano difficili da attuarsi persino le medioevali “tregue” o “paci di Dio”. Una tregua, un cessate il fuoco temporaneo neanche per Pasqua sembra possibile!
C’è qualcosa oggi che, in effetti, ricorda la fase più buia e drammatica della società feudale. Una società in cui la violenza era divenuta il segno distintivo di un’epoca nella vita sociale, nell’economia, nel diritto e nei costumi, una violenza che serviva a reagire ad “uno stato di perenne e dolorosa insicurezza” ( Marc Bloch La società feudale) in cui allora tutti vivevano. Uno stato di insicurezza perenne non molto dissimile da quello in cui oggi viviamo, col pericolo atroce oggi rappresentato, nella moderna “società liquida”, da un mondo in cui le armi accumulate sono usate su scala sempre più ampia da soggetti sempre più incontrollabili e in cui serpeggia nel profondo delle coscienze il timore, in vario modo dissimulato, che è suscitato, nelle tante “crisi” che si accavallano, dalle forze economiche e finanziarie che maciullano l’umile e lo sventurato.
Nel mondo feudale la strada verso la civilizzazione fu aperta, soprattutto in Francia, dall’usanza delle “tregue di Dio”, patti collettivi di armistizio periodico promossi in genere da vescovi in cui ci si impegnava a rinunciare all’uso della violenza, inclusa quella bellica, nel giorno di Pasqua- l’esordio fu nella città di Beauvais nel 1023 d.C.- una usanza poi estesa, oltre che alle grandi feste cristiane, ai tre giorni della settimana che precedono la domenica ( Marc Bloch La società feudale). Oggi invece sembra addirittura impossibile persino realizzare a migliaia di chilometri dl “teatro bellico” un semplice gesto di pace tra popoli in guerra ( non tra governi e governanti in guerra tra loro) ancora proprio nelle ricorrenze della settimana che precede la Pasqua. Ma davvero in quali tempi viviamo?
Certo noi non viviamo in una società feudale, ma, viviamo comunque in una società che presenta caratteristiche che la ricordano da vicino. Viviamo in società in cui avanza, già da prima della pandemia, una evidente “disgregazione dei legami interumani” ( Roberto Mancini, Dialettica della paura nella società dell’astrazione, Quaderno di storia del penale e della giustizia 1/2019, Università di Macerata, p. 37), in una società in cui “il fondamento efficace e il più potente senso mediatore della convivenza risiedono nel potere, non per esempio nella coscienza della dignità umana, nella giustizia o nella conoscenza”, viviamo in quella società che è stata opportunamente definita “società dell’astrazione” (Roberto Mancini, Dialettica ecc., p. 39). Si tratta di un potere che tende a fare della realtà sociale una totalità completamente controllabile e disponibile. Il potere, ovvero la forza, diviene la logica unica ed universale organizzativa della realtà sociale L’autonomia e la libertà della persona passano in secondo piano.
Non molto cambia se si tratti di mercato finanziario, tecnocrazia, sistema mediatico, burocrazia, o del sistema aggressivo della geopolitica che- oggi lo vediamo pienamente in atto- include tutti entro lo spazio bellico della lotta permanente tra le potenze emergenti. Gli esseri umani divengono entità astratte, sradicate dal tessuto delle relazioni vitali, semplici numeri, entità fungibili, spostabili, cancellabili. Forse ci stupiamo perché questo sistema che si alimenta dalla paura e produce e diffonde paura, non suscita ribellione, ma consenso. Ma di fatto è la paura reattiva che viene canalizzata e trasformata nella paura preventiva che hanno i meno potenti rispetto ai più potenti ( Roberto Mancini, Dialettica ecc., p. 41) E solo a questa condizione la paura produce consenso. L’ homo timens il singolo affidato a se stesso è un soggetto insulare, una persona isolata e “socialmente distanziata”, che vive le relazioni umane come puri rapporti di competizione, una persona che attende la salvezza solo dal potere che lo sovrasta cui si deve conformare insieme alla massa. Un uomo che non conosce fiducia, speranza, aspettative di felicità, se non come illusioni giovanili e infantili e sa che deve lottare per la sopravvivenza, nell’ abbandono e nella solitudine, laddove non si trovi all’interno dei meccanismi di potere che garantiscono ottimi surrogati di felicità, fiducia e speranza, come il denaro e l’esibizione dell’ io.
E’ questa logica perversa della paura ciò che genera la crescente accettazione della guerra come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali e ciò che imprigiona le menti, configurando una sorta di rivincita della guerra, dopo l’arretramento che l’idea stessa di guerra aveva subito nella seconda metà del XX secolo. E se paura, isolamento, logica del potere imprigionano a tal punto le menti, non è difficile neppure capire come le ragioni di un certo pacifismo siano diventare ormai deboli, e bisogni invece rivitalizzare la grande e potente cultura della pace.
Il pacifismo ha in genere operato più per rimozione di cause che per costruzioni culturali. Il movimento pacifista del XIX e XX secolo si è basato, in buona parte, sul pensiero economico e sociale liberale, democratico o socialista. Se le cause della guerra erano quelle economiche la soluzione poteva esser data dal libero scambio e dal libero mercato ( “il dolce commercio creatore di pace”, notoriamente una idea illuministica), se esse erano di tipo sociale, cioè erano il grande capitalismo ed i mercanti di armi, la soluzione era la lotta per il socialismo, a partire dallo sciopero generale contro la guerra; se le cause erano politiche, si trattava di eliminare gli Stati autoritari ed autocratici ( democrazie o repubbliche contro monarchie e imperi), come molti pensavano si dovesse fare nel 1915, con una guerra per porre fine alle guerre; se le cause erano morali si trattava di sconfiggere le tendenze nazionalistiche con interventi culturali ed educativi; se le cause erano demografiche ( la sovrappopolazione) si trattava di intervenire sullo sviluppo. Va detto che molto spesso, poi, in questa lotta contro la guerra finiva per divenire una lotta per altri obiettivi: ad esempio, nel caso dei socialisti la lotta contro la guerra serviva se mirava a trasformare la società, quindi poteva anche accadere che si accettasse la guerra quando essa avvicinava il trionfo del socialismo.
Vi è stato poi un pacifismo proveniente dalle grandi religioni e soprattutto dal cristianesimo, nelle due componenti protestante e cattolica. Nel corso del XX secolo il cristianesimo ha trasferito gradualmente sul piano politico il rifiuto della violenza e dell’omicidio, implicito nel messaggio cristiano, mano a mano che le nuove condizioni della guerra, a partire dal 1915, mettevano in difficoltà la teoria della “guerra giusta” e consentivano di portare entro la politica internazionale gli elementi ricchissimi di una cultura della pace contenute nei Vangeli e nella riflessione plurisecolare degli uomini di Chiesa. In questa azione il papato, a partire da Benedetto XV, precedette ed accompagnò una ampia riflessione che ebbe i suoi protagonisti nel laicato cattolico e più generalmente di orientamento cristiano.
Questa rinata cultura della pace confluì in parte ed influenzò anche un’altra corrente del pacifismo, quella che perseguiva la pace attraverso il diritto, attraverso regole giuridiche ed istituti internazionali, come l’arbitrato, il disarmo, gli organismi di pacificazione ( Società delle Nazioni , ONU) e le strutture federali o confederali, come la Comunità europea. Inutile e superfluo il riferimento a Schuman, Adenauer, De Gasperi ed alla loro convergenza con il federalismo di Spinelli.
Se vogliamo esser precisi le grandi Encicliche della Chiesa Cattolica, specie dalla Pacem in Terris ( 1963) in poi hanno mostrato una verità storica a prima vista paradossale: la cultura della pace si fonda su una dimensione morale, più ancora che su un equilibrio di forze materiali economiche o militari.
La pace intesa in positivo, cioè non come assenza di guerra, o intervallo tra guerre, come risultato di un equilibrio di forze, ma come costruzione positiva e ordine delle cose che non dipende dalla volontà dell’individuo o di un gruppo, si fonda su opzioni di coscienza che impegnano la responsabilità personale di popoli e governanti. E’ un concetto questo di pace che si lega all’idea dei diritti umani, collegamento che di solito sfugge alla riflessione corrente.
San Giovanni Paolo II invece è stato chiarissimo su questo: “ Sulla base della convinzione che ogni essere umano è uguale in dignità e che, di conseguenza, la società deve adeguare le sue strutture a tale presupposto, sorsero ben presto i movimenti per i diritti umani, che diedero espressione politica concreta a una delle grandi dinamiche della storia contemporanea. La promozione della libertà fu riconosciuta come una componente indispensabile dell’impegno per la pace. Emergendo praticamente in ogni parte del mondo , questi movimenti contribuirono al rovesciamento di forme di governo dittatoriali e spinsero a sostituirle con altre forme più democratiche e partecipative. Essi dimostrarono, in pratica, che pace e progresso possono essere ottenuti solo attraverso il rispetto della legge morale universale, scritta nel cuore dell’uomo” ( San Giovanni Paolo II, Messaggio per il 1 gennaio 2003, rinviante al Discorso pronunciato all’ Assemblea dell’ ONU il 5 ottobre 1995)
Pace vera e vero progresso possono essere imposti soltanto dalla coscienza morale, che, attraverso la dimensione razionale, è in grado di riconoscere la dimensione dei diritti come associata a quella dei doveri. Altro che logica della forza e della vittoria militare! Neppure le politiche internazionali possono collocarsi realisticamente, senza creare danni colossali e senza effetti autodistruttivi, entro una “zona franca” in cui la legge razionale è sostituita dalla legge del più forte. Anche la cosiddetta “guerra giusta” deve tenersi entro questi limiti. In fondo era ciò che si riconosceva già nella PACEM IN TERRIS laddove papa Giovanni parlava dei quattro pilastri della cultura della pace : verità, giustizia, amore e libertà, non termini vaghi ed astratti, ma parole impegnative e anche oggi concretamente applicabili.
“L’ordine tra gli esseri umani nella convivenza è di natura morale. Infatti, è un ordine che si fonda sulla verità; che va attuato secondo giustizia; domanda di essere vivificato e integrato dall’amore; esige di essere ricomposto nella libertà in equilibri sempre nuovi e più umani” ( Pacem in terris, p. 5 ). Verità intesa come consapevolezza piena non solo dei propri diritti, ma anche dei doveri verso gli altri, giustizia intesa come edificazione della pace fatta nel rispetto dei diritti altrui e dei doveri propri, amore inteso come capacità di sentire come propri i bisogni e le esigenze altrui e di rendere gli altri partecipi dei propri beni, libertà intesa come volontà di perseguire la pace in modo conforme alla dignità collegata alla natura razionale dell’essere umano ed alla sua responsabilità. Potrebbe costruirsi anche oggi una PACE VERA E DURATURA su fondamenti diversi da questi?
Per questo è necessario arrivare al negoziato ed al dialogo. C’è qualcuno che ha timore del tentativo di dialogo tra i popoli nella forma della comune preghiera al Signore della pace? sarebbe un timore strano e infondato, a meno che non si tratti del timore di chi non vuol veder crollare sotto i suoi piedi la logica della guerra, che potrebbe rivelarsi un colosso dai piedi di argilla. Solo in questo caso il timore sarebbe fondato. E’ lo stesso timore di chi, con apparente ironia, poneva la questione della forza del Cristianesimo nei termini materiali e militari, apparentemente oggettivi e indiscutibili, di “quante divisioni ha il Papa”. La storia del XX secolo negli ultimi decenni ha mostrato ad abudantiam da che parte stava la ragione della storia e “quante divisioni aveva il Papa”. E’ il momento di gridare alto e forte a chi ha in mano le vite umane, sostenendo l’iniziativa della Conferenza delle Chiese europee (CLICCA QUI): concedete almeno la “tregua di Dio”!, fermate, in occasione della Pasqua, per un momento le armi, come nel Medioevo, rispettando la coscienza delle persone credenti, come lo sono in larga parte i combattenti e forse anche i capi delle due parti in conflitto. Ricordiamoci che da quelle medioevali “tregue di Dio”, granello di senape gettato nel terreno della storia, è nata la civiltà comune europea.
Umberto Baldocchi