Noi usiamo indifferentemente la stessa parola – “pace” – per indicare una condizione di equilibrio e di armonia interiore e, ad un tempo, una situazione di non belligeranza tra popoli e nazioni. Ne deriva una qualche analogia del suo significato e dei suoi possibili sviluppi nei due campi.
Nel nostro linguaggio comune e quotidiano, “pacifico” lo si dice almeno secondo due declinazioni. E’ “pacifico”, artefice della pace, colui che costruisce relazioni di reciprocità solidale e, quindi, concorre a creare ed incrementare, se non altro, isole di coesione sociale e di comune appartenenza che resistano al fluire, a tratti impetuoso, della cosiddetta “liquidità” corrosiva che oggi sembra sovrastare il nostro vivere civile. Ma diciamo “pacifico” anche colui che, sia pure spesso in modo accattivante e gioviale, si sente soddisfatto, pienamente contento e compiaciuto di sé e gode, al punto di affondarvi, di una tranquillità ovattata, sorda e cieca, cade in una sorta di solipsistica auto-contemplazione, che, anziché costruire, sia pure inavvertitamente, mina e dissolve ogni sentimento di comune appartenenza. La pace di costoro è una sorta di schiavitù vischiosa che non conosce speranza, né attesa né futuro.
La vera pace non è forse, al contrario, sempre intrecciata al conflitto che, per certi aspetti, ne rappresenta addirittura la fonte? E’ sicuramente così nel “vissuto” di ciascuno. Non c’è crescita senza “polemos”. Non c’è età della vita – che sia l’infanzia o l’adolescenza, l’età giovane-adulta o la maturità, la senescenza o piuttosto la vecchiaia – che non abbia un suo fisiologico registro di passaggi critici e di tensioni, che, solo ricomponendo gli opposti in una superiore unità dello spirito, consentono di accedere alla pace interiore. Una pace che diventa, a questo punto, fonte di gioia, essendo quest’ ultima – come sostiene Sant’ Agostino – esperienza e frutto della verità compiuta.
La pace non ha, dunque, nulla di statico, inamidato, acquisito una volta per tutte, permanente e sempre uguale a sé stesso, bensì ha, strutturalmente, per forza di cose, una dimensione dinamica, vive di una progressione continua, aspira ad una prospettiva senza limite. La pace, come recita l’ incipit della “Pacem in terris”, è un dono, una condizione mai del tutto compiuta che va oltre la nostra umana capacità, ma è, nel contempo, la responsabilità di ogni giorno, cammina o meno nell’ intenzionalità di ogni gesto, non solo nelle “gesta” dei grandi protagonisti della storia.
Pace e conflitto, guerra e pace si rincorrono, si intrecciano e si sovrappongono secondo dinamiche a volte indecifrabili. La pace poco o nulla ha a che vedere con un fasullo umanesimo “buonista”, con certe forme di pacifismo sostenute da un sentimento nobile, ma sostanzialmente ingenue ed astratte. E’ piuttosto – secondo l’invito che giunge anche da Papa Francesco – il portato di una tenace, paziente, progressiva , instancabile, mai rassegnata costruzione di equilibri di giustizia e di reciproca legittimazione sul piano delle relazioni internazionali, fondate sul rispetto della libertà e della dignità insopprimibile di ogni persona. Costruzione la cui responsabilità concerne la politica, ma pure poteri che tendenzialmente vorrebbero prescinderne.
Anche la ricerca, ad esempio, è un continuo confliggere tra dati sperimentali e concetti che, solo quando si compongono in una sintesi di più alto livello, consentono di accedere ad una conoscenza eminente e più comprensiva. Anche cacciare i mercanti dal Tempio, rovesciare i tavoli dei cambiavalute è stato un gesto di pace, in quanto inteso a ristabilire un ordine di valori violato, la giustizia ed il diritto. Né risulta che Chi ha compiuto quel gesto, dopo la sfuriata, abbia sentito il bisogno di tornare sui suoi passi per chiedere scusa e tanto meno si sia offerto di risarcire i danni, come forse si sarebbero aspettati i cultori del “politicamente corretto”, se allora ve ne fossero stati.
Viviamo in un mondo assediato dalle guerre e per costruire la pace non serve demonizzare o esorcizzare il conflitto, ma imparare a governarlo, anzitutto secondo quel diritto internazionale irrimediabilmente ferito sia a Kiev che a Gaza.
La rivalità e l’aperta contesa continueranno ad accompagnare la storia dell’umanità, anzi la vivificheranno, purché vengano, quanto più possibile, ricondotte a forme di competizione virtuosa, piuttosto che cadere nella conflagrazione bellica.
Domenico Galbiati