11 Aprile 1963: sessant’anni fa, due mesi prima di tornare al Padre, Giovanni XXIII pubblica la sua ultima Lettera Enciclica, “Pacem in terris”. Data volutamente, come ci tiene a ribadire Papa Roncalli, in “Coena Domini”, cioè il giorno di Giovedì santo. Altresì, ricorda, nel messaggio che ne accompagna la pubblicazione, l’ “innovazione propria” dell’ enciclica: l’ essere rivolta a tutti gli uomini di buona volontà, al di là di ogni fede e di ogni cultura, non solo ai credenti ed alla Chiesa come tale.
Il mondo aveva superato da pochi mesi, con la crisi dei missili sovietici a Cuba – scoppiata pochi giorni dopo l’apertura del Concilio – il rischio di un olocausto nucleare. Eravamo, dunque, all’apice della Guerra fredda, eppure, timidamente, compaiono i primi segni di un nuovo orientamento, che pur tarderà ad affermarsi, attraverso conflitti e guerre che continueranno ad insanguinare il mondo e tuttora continuano. Erano gli anni dei “due Giovanni: verranno meno ambedue, in quello stesso anno, nel breve volgere di sei mesi. Erano gli anni in cui gli uomini – la cultura, la politica, i credenti, in modo particolare – ricercavano i “segni del tempo”.
Avvertivano – seppure ancora confusamente, come se si cercasse di diradare una nebbia, oltre la quale sembrava, comunque, di poter scorgere, forse, una speranza – come si preparasse una nuova stagione della storia. Krusciov aveva spinto il mondo sovietico sulla via della “destalinizzazione” e cercava di aprire una strada che venne poi preclusa.
Si sviluppava un accostamento tra cristianesimo e marxismo, che, per quanto improbabile e velleitario, segnalava la volontà, spesso ingenua, ma generosa, di ricercare nuovi linguaggi, possibili sintonie. In vista di una lettura del momento storico di cui si avvertiva l’urgenza.
Si capiva come, finalmente usciti dal secondo dopoguerra, avviata, nel nostro Paese in modo particolare, una nuova fase di sviluppo, premesse un nuovo sentimento, una più accesa sensibilità, quell’ aspirazione ad un tempo “nuovo” che culminerà nella contestazione giovanile del ‘68. Il Concilio, con la serenità aperta e coraggiosa di Papa Giovanni e poi con la guida di Paolo VI, due Pontefici lombardi, bergamasco il primo, bresciano il secondo, nati a qualche decina di chilometri l’ uno dall’altro, spinge la Chiesa Universale a ripensare e ripercorrere, nella fermezza della fede, “le vie ampie del mondo”. E’, in sostanza, la Chiesa Cattolica, a cogliere per prima – secondo quell’ ispirazione che Papa Giovanni fa risalire espressamente allo Spirito – questa nuova domanda, una domanda di libertà, che cresce e matura nel cuore dell’uomo.
La pace, la pace universale, aperta a tutti gli uomini. – “anelito primo della famiglia umana”, come afferma il Santo Padre – la redenzione e la salvezza di tutti gli uomini, la tutela della dignità della persona umana rappresentano il cuore dell’ Enciclica, sulla cui fronte, sostiene il Pontefice, “brilla la luce della Divina Provvidenza” e, nel contempo, le linee dottrinali si rifanno alle “esigenze intime della natura umana”, cioè riconducono al diritto naturale.
Verità, giustizia, carità, libertà rappresentano le pietre con cui costruire l’edificio della pace, “nessuno escludendo dall’ invito di recarvi personale contributo”.
Dopo sessant’ anni, la “Pacem in terris” non meno della “Rerum Novarum”, resta, con la “Populorum Progressio” di Papa Montini, un caposaldo del Magistero della Chiesa che dovremmo avere l’ umiltà e la pazienza di studiare a fondo e di attualizzare a fronte del tempo presente.
I rapporti degli uomini tra loro; i rapporti degli uomini con i pubblici poteri; i rapporti delle comunità politiche tra loro; i rapporti degli esseri umani con la comunità universale, così come vengono evocati da Papa Giovanni possono essere assunti, ancora oggi, come progetto e concreta linea programmatica diretta a costruire quella pace che tuttora, con la stessa urgenza e forse più, continua ad essere l’ “anelito primo della famiglia umana”.
Domenico Galbiati