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La partecipazione dei lavoratori alla gestione delle imprese – di Daniele  Ciravegna

Il 4 maggio scorso, il Sindaco di Torino, Stefano Lo Russo, nel corso di un incontro con le rappresentanze sindacali dei lavoratoti di GTT (Gruppo Torinese Trasporti, società in house del Comune), ha presentato l’idea che il Consiglio di amministrazione della stessa venga allargato da tre a cinque membri, includendovi anche una persona designata dalle rappresentanze dei lavoratori.

L’idea non sembra aver interessato la comunità civile e politica, se non i sindacati dei lavoratori, creando un acceso dibattito fra di loro e all’interno di loro. Semplificando, si può dire che la CISL ha accolto la proposta con interesse e favore, mentre CGIL e UIL hanno presentato perplessità, riconducendo queste all’assenza di una normativa specifica, rifacendosi all’art. 46 della Costituzione, che recita: «Ai fini dell’elevazione economica e sociale del lavoro e in armonia con le esigenze della produzione, la Repubblica riconosce il diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende» (parole che riproducono, come in molti altri casi, un’espressione di compromesso fra posizioni diverse presenti nell’Assemblea Costituente).

La proposta è stata ovviamente etichettata come un’iniziativa di ipotesi di cogestione alla tedesca o alla svedese, che prevedono la presenza di dipendenti negli organi di gestione tipo Consiglio d’indirizzo o di sorveglianza o Consiglio di amministrazione, non ricordando peraltro che recentemente la riforma del Terzo settore ha previsto la possibilità che lo statuto delle imprese sociali, specie se di una certa dimensione, contempli la presenza negli organi di governo di lavoratori o di utenti dell’impresa stessa.

Per dare una risposta motivata alla questione si deve fare ricorso all’idea che si ha del lavoro, considerato nel suo significato per la persona e nel modo in cui esso si effettua. Il lavoro si realizza normalmente in un ambiente sociale, in contatto e/o in collaborazione con altri lavoratori e con altri soggetti economici. È allora necessario che i lavoratori siano coinvolti nella gestione, in toto o compartecipata, dell’impresa che concorrono a formare. Che operi cioè il modello partecipativo nella forma di partecipazione dei lavoratori al processo decisionale normale e alle scelte strategiche dell’impresa e anche ai risultati economici della gestione stessa: una compartecipazione che permetta ai lavoratori di essere e sentirsi coinvolti appieno nella comunità produttiva di cui sono parte. Non meri esecutori di scelte altrui, come se fossero soggetti inermi – e neanche ovviamente il falso strumento partecipativo dato dalle cosiddette “associazioni in partecipazione”; contratto alla luce del quale i lavoratori sono “associati” all’impresa, fingendo di apportare capitale umano (anziché finanziario), ma non partecipando in alcun modo alla definizione dei processi decisionali d’impresa ordinari e strategici – ma attori responsabili all’interno della comunità produttiva che si chiama impresa, e da ciò non potranno non discendere anche rilevanti miglioramenti nell’impegno dei lavoratori, e quindi anche nei risultati economici dell’impresa stessa.

Infatti, le possibilità di sviluppo di ogni lavoratore e i risultati del lavoro sono tanto migliori quanto più ha modo di esprimersi l’intelligenza di chi lavora, quanto più è apprezzata e stimolata (e non, invece, osteggiata) la sua intraprendenza, quanto più ampia è la libertà di conseguire obiettivi condivisi. La condivisione è essenziale perché, quando lavorano, l’uomo e la donna svolgono due tipi di azione: una di tipo transitivo, poiché l’agente cambia la realtà in cui vive, ma anche una di tipo immanente, poiché l’agente cambia se stesso. Così facendo, il lavoratore riesce a realizzare le condizioni per un’autentica libertà del lavoro, poiché riesce a realizzare la sua espressione creativa che arreca al lavoratore la soddisfazione diretta dell’essere padrone di se stesso. Se vien meno questo cambiamento, espressione della realizzazione della propria persona, il lavoratore – inserito in un luogo di lavoro in cui egli non è altro che uno dei tanti input trasformati, secondo certe regole prefissate, in output, e non un luogo in cui si forma e si trasforma il suo carattere – non comprende il senso di ciò che sta facendo e il lavoro diventa schiavitù (mancanza completa di possibilità di operare per realizzare, creandolo lui stesso, il proprio disegno di vita) e la persona può essere sostituita con una macchina.

Ma il lavoro dell’agente influisce anche sugli altri, sulla società; fra l’altro, quest’influire sugli altri è la causa di fondo che porta all’ottenimento di una contropartita, che è la remunerazione che il lavoratore percepisce da altri singoli soggetti o dalla società, cioè dagli organismi pubblici che istituzionalizzano quest’ultima. È allora assai rilevante che vi sia condivisione negli obiettivi che hanno il lavoratore e gli altri soggetti soggetti individuali o collettivi. Questi altri sono i diversi soggetti interni ed esterni all’ambiente di lavoro e la presenza dei soggetti interni porta all’esigenza imprescindibile di trasparenza, dialogo e condivisione e di creare e mantenere relazioni corrette con i diversi soggetti coinvolti nelle attività dell’unità produttiva, quindi tanto più quanto più partecipativo è l’ambiente di lavoro. La partecipazione stimola e promuove iniziativa, creatività, innovazione e un senso di responsabilità condivisa sicuramente superiori a quelli che permette di realizzare la semplice delega: fra l’altro, la delega conferisce una responsabilità o un potere di prendere decisioni precari (poiché la delega può essere ritirata in qualsiasi momento), il che non può non avere effetti di contenimento rispetto ai livelli d’impegno e di eccellenza attivabili con la partecipazione. La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa in cui lavorano è un punto importante anche per la piena partecipazione dei lavoratori nella comunità, come cittadini a pieno titolo, con tutti i diritti e i doveri.

La partecipazione dei lavoratori alla gestione dell’impresa emerge chiaramente all’interno della Dottrina sociale della Chiesa che considera e sottolinea il lavoro quale elemento essenziale per la dignità e la realizzazione della persona. INSIEME sposa completamente questa visione e lo fa anche con la presentazione di una recente petizione (CLICCA QUI) che indica 20 azioni per risollevare le condizioni del lavoro all’interno della comunità, e quindi anche delle imprese, fra le quali comprende quella di adottare «un modello partecipativo che inserisca i lavoratori nella gestione compartecipata della comunità produttiva che si chiama impresa».

Rimane la questione dell’assenza di una normativa nazionale (o regionale?) che regolamenti la partecipazione dei lavoratori alle gestione delle imprese. Quest’assenza non deve tarpare le ali a una riorganizzazione delle imprese di così ampia e positiva portata. D’altra parte, a partire dal cosiddetto “Patto della fabbrica” fra Confindustria, CGIL, CISL, UIL del 9 marzo 2018 – avente quale focus la crescita del Paese e il miglioramento della competitività attraverso l’incremento della produttività delle imprese, comprendendo linee d’intervento riguardanti diversi temi, fra i quali la partecipazione dei lavoratori, giustificata però nei predetti termini quantitativi e non in termini di dignità e piena realizzazione della persona dei lavoratori – non sono mancati altri accordi, come quello fra Assolombarda, CGIL, CISL, UIL dell’Area Metropolitana di Milano del 4 ottobre 2019 e diverse proposte di legge sulla partecipazione azionaria e/o gestionale dei lavoratori.

In assenza di uno specifico divieto a istituire la partecipazione dei lavoratori al capitale e/o alle gestione delle imprese, che cosa impedisce una sperimentazione in questo campo? Forse – come si dice, in modo qualunquistico – la “volontà politica”? A Torino, pare che, almeno nel caso riportato all’inizio di quest’articolo, almeno in parte, la si possa trovare.

Daniele Ciravegna

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