La polemica nata, un paio di settimane or sono, dal concorso del Presidente del Senato alla celebrazione dell’ anniversario di fondazione del MSI, ha la sua ragion d’essere e il dissenso, nei confronti dell’atteggiamento assunto nell’occasione da Ignazio La Russa, è stato espresso, anche su queste pagine, in modo chiaro e fermo, com’è giusto che sia. Ad un alto livello di responsabilità istituzionale – e qui parliamo della seconda carica dello Stato – non è possibile disgiungere la propria persona dal ruolo pubblico chiamato a ricoprire, rappresentandovi l’intera comunità nazionale.
Ci sono regole non scritte, affidate alla sensibilità politica di ognuno, espressione del rispetto, più o meno spiccato, che ciascuno è in grado o meno di riservare alle istituzioni, in quanto garanti dell’ordinamento costituzionale e, dunque, in ultima istanza, al popolo che della sovranità democratica è il titolare. Quel principio di “terzietà” o, più semplicemente, di comune buon senso che anche il Presidente del Senato avrebbe dovuto osservare, non è, peraltro, necessariamente facile e scontato. Esige – si potrebbe dire – una certa ascesi, una pur minuscola capacità di lavorare su sé stessi, staccarsi dall’invadenza, spesso petulante, del proprio “io” e della propria storia, delle passioni che la accompagnano, per far posto a quell’ “altro da sé” che si è assunto la responsabilità’ di rappresentare.
Eppure, la questione va considerata anche da un’altra angolazione. Se potessimo, per un attimo, prescindere da tutto ciò, non sarebbe stato lecito considerare una ipocrisia il fatto che un esponente politico del calibro e con la storia di Ignazio La Russa non festeggiasse la fondazione del suo partito d’origine? La questione ha una valenza generale che prescinde dal caso specifico ed andrebbe, una volta per tutte, affrontata con la schiettezza necessaria. Cioè, senza le ipocrisie implicite e passate sotto silenzio che la accompagnano, da parte di personaggi che vanno alla ricerca di nuove legittimazioni pagate al prezzo di un sostanziale ripudio – qualche volta addirittura uno sputo nel piatto – della propria storia personale. Concerne il tema degli “ex” o dei “post” che si presenta, in modo particolare, nelle situazioni storiche contrassegnate da un netto mutamento del quadro politico, com’è successo a metà degli anni ‘90 con la scomparsa dei partiti dominanti della prima repubblica.
E’ davvero possibile essere “ex-democristiani” oppure “ex-comunisti”? Oppure non è altro che una solenne corbelleria, con la quale, chi ci casca, si prende in giro da solo? Le conversioni, le “vie di Damasco”, sono una cosa terribilmente seria, ma, non a caso, concernono l’interiorità religiosa e spirituale della persona. Si tratta di una trasformazione profonda, di una “metanoia” che allude ad un intervento della Grazia, che tocca il nucleo più intimo di una persona, una dimensione che va ben a fondo del livello cerebrale, più o meno lucido, dove si elaborano le nostre riflessioni politiche, auspicabilmente razionali. Per quanto anche queste siano – come dire – meno neutre o incondizionate di quanto sembrerebbe a prima vista, ma, piuttosto, esprimano, quasi in modo silente, un’ antropologia, cioè quell’ auto-comprensione che ognuno di noi coltiva in proprio. In altri termini, a meno che uno concepisca la politica come un altalenante gioco di società, le posizioni che vi si assumono non sono costruzioni asettiche, bensì manifestano un sottofondo che le precede, quell’ insieme di valori e di credenze che danno conto dell’impasto di cui ognuno è fatto. Per questo non si può buttar via il bambino con l’acqua sporca….ammesso e non concesso che lo sia o tale sia stata.
Per molti, per chi ci ha creduto e ci ha lavorato davvero, essere democristiani, comunisti o socialisti – e la stessa cosa dobbiamo riconoscere a chi stava o sta collocato dall’altra parte – è una sorta di categoria dello spirito, di cui non ci si può svestire. Lo attesta, del resto, la persistenza delle culture politiche storicamente fondate, a dispetto delle stupidaggini “nuoviste” di cui ci hanno riempito la testa.
Entriamo in una fase storica difficile per la quale l’autenticità di ciascuno costituisce una risorsa fondamentale. Non si tratta – tutt’altro – di negare la necessaria evoluzione di un pensiero politico, addirittura quella capacità di “de-coincidere” da sé stessi che ci vuole, ma pur non contraddice una coerenza, anzitutto morale, irrinunciabile. Insomma, viene il momento in cui, dopo qualche decennio di allegre idiozie, è bene che ognuno, anziché buttarlo alle ortiche, torni a coltivare il proprio originario patrimonio ideale che è sostanzialmente indelebile, anche quando si debba correggerlo, integrarlo, criticarlo, superarlo motivatamente dove serve, ma pur sempre ricordando che non ci si dimette da sé stessi.
Domenico Galbiati