Tutte le economie sono in recessione ma i mercati finanziari continuano la loro corsa. Produzione, reddito e investimenti registrano cadute in tutto il mondo nel 2020 sotto gli effetti devastanti della pandemia da covid-19 ma le Borse, pur con alterne vicende, crescono.
Il caso più eclatante è quello degli Stati Uniti dove nel 2020 il PIL è diminuito del 5% mentre l’indice Standard & Poor’s, che misura l’andamento di cinquecento titoli, è aumentato del 14%.
Il fenomeno anche in condizioni normali non è nuovo: sempre in America negli ultimi dieci anni il PIL è aumentato del 20% e l’indice azionario ha registrato un più 128%.
Fino agli anni settanta, le crisi mondiali che provocavano la caduta della produzione di beni e servizi avevano lo stesso riflesso sui mercati. Poi è cambiato tutto ed oggi c’è un fatto nuovo ad accentuare la contrapposizione: produzione, investimenti e consumi sono in forte caduta per effetto della crisi sanitaria estesa come mai era accaduto: “evento mai verificatosi nelle economie regolate dal libero mercato” come ha annotato il professor Savelli dopo la prima ondata di pandemia. Di contro, le Borse tra alterne vicende tengono e alla fine migliorano.
Le ragioni che allontanano la finanza dalla economia reale sono sempre più profonde.
Agli scambi tra titoli rappresentativi dei beni e servizi prodotti dalle imprese, dal debito delle stesse a lungo termine (obbligazioni) e dal debito pubblico (titoli di Stato) si sono aggiunti – prevaricandoli- strumenti finanziari creati dal nulla che poco hanno a che fare con i beni reali. Nella maggior parte dei casi questi strumenti rappresentano solo aspettative, accorpamenti di titoli di debito, previsioni (cioè scommesse) su aumenti o rialzi di materie prime, di valute, di tassi di interesse, di indici. Tutti con puro intento speculativo.
A ciò si aggiunga l’avvento delle tecnologie digitali, le nuove formule di elaborazione dei dati, i valori immateriali, gli algoritmi che decidono quando acquistare o vendere titoli e, appunto, derivati. Non esistono più nè lo spazio nè il tempo perché lo spazio è il mondo senza confini nè barriere e quanto al tempo basti un dato: negli anni sessanta un titolo restava in portafoglio dell’operatore mediamente quattro anni ed oggi ci rimane trenta secondi.
Anche la percezione della finanza è cambiata. Si è sempre ritenuto che un titolo azionario avesse successo quando l’impresa aumentava il proprio capitale e creava nuovi posti di lavoro. Oggi un titolo ha successo se vengono annunciati licenziamenti. Vedi il caso delle banche, tanto per non cambiare.
A ciò si aggiunga che in nome del “libero mercato” sono progressivamente cadute regole, controlli, normative, limiti stabiliti dalle leggi allo scopo di controllare le operazioni.
Due soli numeri esprimono queste diverse realtà: l’economia reale di tutti i Paesi del mondo è stata stimata nel 2019 dalla Banca Mondiale in ben 87.000 miliardi di dollari (PIL mondiale) mentre la massa finanziaria in circolazione è di almeno venti volte superiore. Una valanga di proporzioni titaniche in costante movimento dove i soli derivati ammontano a 560.000 miliardi di dollari. Se poi si consideri, come evidenzia la Banca Centrale Europea, che la metà delle transazioni si aprono e si chiudono nel giro di cinque minuti si ha una idea ancora più precisa di quanto avviene.
E la politica, che può fare davanti a questa sconvolgente realtà? Per cominciare sarebbe sufficiente fossero spazzati via alcuni luoghi comuni.
Non è vero che le norme favorevoli al mercato finanziario favoriscono la redistribuzione della ricchezza, come sostenevano Reagan e la Signora Thatcher. E’ solo una piccola parte della popolazione che trae guadagni dalla finanza.
Non è vero che questi mercati esprimono la vitalità di in Paese, come sostiene Trump, perchè in larga parte i protagonisti di questo mondo non hanno Paese, bandiera o colore e abitano in tutti i luoghi delle convenienze.
Non è vero che pochi poteri “forti”, siano essi grandi vecchi o gli gnomi di Zurigo, tutto decidono e dispongono. Il mercato altro non è che “la risultante di una miriade di transazioni nelle quali ciascuno pensa ai suoi desideri, non certo ai processi a cui si arriva per soddisfarli” come ha dimostrato il grande economista Fredrik Hayek.
La politica, prima che sia troppo tardi, dovrebbe fare tesoro della profezia di un altro grande economista italiano, Federico Caffè, che cinquant’anni orsono era già convinto che la crescita smisurata della finanza “non avrebbe favorito il vigore competitivo delle imprese, quanto piuttosto un gioco spregiudicato di tipo predatorio”.
Guido Puccio