Chi voglia fare seriamente politica, deve, anzitutto, saper leggere sapientemente il “momento”. Deve poter cogliere, in altri termini, quale sia, in quel determinato frangente, la “priorità delle priorità”, il tema che da solo connota quella certa fase temporale ed attorno al quale gli altri argomenti ruotano su traiettorie che, lo si sappia o meno, non sfuggono alla forza gravitazionale della questione che tiene saldamente il centro della scena.

Nel nostro Paese – ovviamente coinvolto nelle mille tensioni del drammatico scenario internazionale – l’attenzione, in questa fase, è focalizzata, in primo luogo, sulla consultazione europea del prossimo mese di giugno. Sia per il rilievo in sé – prima d’ora, mai percepito altrettanto chiaramente – del rinnovo del Parlamento di Strasburgo, sia per i riflessi che il responso delle urne potrebbe avere sugli equilibri interni alla stessa maggioranza di governo.

Non bisogna lasciarsi trarre in inganno e scambiare le turbolenze che investono l’immediata contingenza del discorso pubblico con i movimenti, forse meno appariscenti, ma più sostanziali, che si muovono nelle regioni più profonde dell’accadere politico. Detto altrimenti, il “momento” italiano è oggi contrassegnato – senza sminuire le altre mille tematiche che si inerpicano in una reciprocità di condizionamenti intrecciati che danno l’idea della effettiva complessità in cui ci muoviamo – dalla proposta di riforma costituzionale, avanzata dalla due destre di Meloni e Salvini, secondo un combinato disposto tra “premierato” ed “autonomia differenziata”, destinato letteralmente a stravolgere l’ impianto della Costituzione Repubblicana, che, ai loro occhi, ha la grave colpa di essere nata dalla lotta di liberazione dal fascismo.

A giudicare dall’atonia con cui si guarda a questa prospettiva, non solo da parte delle presunte opposizioni, ma dal mondo della cultura democratica e civile, dal mondo accademico, da parte del mondo sociale, sindacale ed imprenditoriale, associativo, professionale, in sostanza da quella pluralità di espressioni della società civile che si è ben diversamente mobilitata in altre occasioni, questa volta rischiano di farcela. Quasi ci sia una tacita e rassegnata accondiscendenza.

Certo, si tratta di un cammino di non breve momento ed il probabile referendum non è così immediatamente alle porte, ma la battaglia è talmente dirimente che bisogna esserne consapevoli e convinti fin d’ ora e cominciare da subito a predisporre le opportune contromisure. Siamo posti di fronte ad una questione a cui nessuno può sfuggire, magari eclissandosi nel pretesto che, in fin dei conti, si tratta di una tematica di carattere tecnico- istituzionale di cui è bene che si occupino gli addetti ai lavori. E’ vero esattamente il contrario.

Siamo su un crinale che non consente traccheggiamenti o mediazione di sorta: si sta da una parte o dall’ altra.
La “legge fondamentale dello Stato” – qualunque sia la sua impostazione di fondo – rappresenta in ogni caso, l’architrave che regge la “convivenza civile” di un popolo – la costruzione della “polis” – e, in ultima istanza, ha, dunque, anche un irrecusabile valore “antropologico”, anche se, nel linguaggio politico corrente, esploriamo meno questo versante.

Vuol dire che la Costituzione concerne la cognizione che un “popolo” – e per esso i singoli cittadini che vi si riconoscono – ha di sé stesso, la sua consapevolezza di sé, l’ “auto-comprensione” che ne orienta i comportamenti, il modo di intendervi, dunque, in primo luogo, il primato della persona piuttosto che dello Stato, il ruolo della famiglia e delle spontanee aggregazioni sociali, la stessa concezione dell’ “io” che matura e si compie, in quella pluralità di relazioni che danno forma ai diritti civili e, non meno, alla vasta costellazione dei diritti sociali. Insomma, la Costituzione dice chi siamo e chi intendiamo essere e la cosa investe, ben più di quanto distrattamente non riteniamo, la concreta esperienza, l’ esistenza, il “vissuto” di ognuno, di ciascun cittadino nella sua irripetibile singolarità e non solo la dimensione del “collettivo”. Non è fuori luogo dire che la Costituzione si vive.

Ne consegue – a maggior ragione, guardando al mondo cattolico, cioè a coloro che si riconoscono in una cultura “personalista” – che salta d’ incanto, ad esempio, ogni più o leziosa distinzione tra impegno politico e pre-politico, tra formazione delle coscienze e militanza attiva, anche nelle sue forme di partito. Ed, infine, la questione interroga anche quelle espressioni di mondo liberale, democristiano o socialista che pure sono, qua e là, sparse nell’attuale maggioranza di governo, per lo più accolte, fin dalle sue origini, in Forza Italia, la quale, a sua volta, appartenendo al PPE, dovrebbe dar conto di una conciliazione, francamente difficile, tra riferimento alla casa-madre dei cristiano-sociali e l’ adesione, a meno che ne prenda le distanze, ad una inaccettabile riforma costituzionale. Sapendo, peraltro, che i temi istituzionali, ciò che, in linea generale, concerne la forma dello Stato, stanno su un piano sovraordinato e non riducibile alla logica delle contingenti maggioranze parlamentari.

Domenico Galbiati

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