Come ci ha ricordato Giancarlo Infante, la morte di Enrico Berlinguer – a sei anni dalla scomparsa di Aldo Moro – ha rappresentato, come fu per la Democrazia Cristiana appunto nel maggio ’78, uno spartiacque per i comunisti italiani e per il loro ruolo nella vita politico-istituzionale del Paese.
Berlinguer ha avviato il distacco del suo partito dal “servo encomio” al Moloch sovietico senza cadere in un “codardo oltraggio”.
Come era giusto che fosse, perche’ quando è necessario cambiare, si può e si deve farlo, ma senza mai sputare sulle proprie radici.
Ma il merito fors’anche maggiore è stato quello di disincagliare il PCI dalla stretta osservanza ideologica per tradurlo sul piano piu’ diretto di una politica che si gioca nella contingenza immediata del momento storico dato.
E’ il Berlinguer che riconosce apertamente il ruolo della Nato o che invoca la pura e semplice “buona amministrazione” come elemento strutturale importante dell’azione politica.
E’ il riformista autentico che, una volta per tutte, non pensa dogmaticamente, come da precetto, alla rivoluzione.
Del resto, cos’ è la “rivoluzione” se non l’approdo terminale di un lungo processo evolutivo e non è piuttosto qui che insistono e maturano le condizioni che pretendono una svolta radicale del corso della storia?
E’ quel che pensano, ad esempio, coloro che si riconoscono in una forza non ideologica, ma fondata su principi fermi che, dentro lo sviluppo quotidiano del processo storico, orientano e via via distillano valori e contenuti di un’ azione politica mai aleatoria, sempre radicata nel contesto sociale vissuto.
E’ il caso della Democrazia Cristiana e qui sta uno degli aspetti strutturali di fondo che hanno marcato la differenza tra le due grandi forze popolari della prima Repubblica.
Ed, infatti, non è sul piano di una marmellata para-ideologica, bensì sul terreno di posizioni ed idee “chiare e distinte” che, nella piena consapevolezza di ciò, convergono su un progetto politico condiviso che avviene l’incontro tra Moro e Berlinguer.
Purtroppo, sappiamo come tragicamente sono andate le cose.
In casa nostra. E poi in casa comunista dove, via via abbandonata la sponda marxista – a maggior ragione negli anni a seguire fino all’ 89 ed oltre – è, però, prevalsa l’inclinazione ad adattarsi ad una nuova ed alternativa nicchia ideologica che l’ha condotta ad assumere la fisionomia di una sorta di “partito radicale di massa” che poco o nulla ha da spartire con l’autentica vocazione popolare della tradizione comunista.
Varrebbe la pena, ad esempio, di ricordare – senonché si scivola troppo all’ indietro nel tempo e, comunque, non è qui il caso di dilungarsi – come, non a caso, la stessa legge sul divorzio era, a suo tempo, comunemente chiamata “legge Fortuna-Baslini” (radical-socialista l’uno; liberale l’altro) e venne adottata attraverso un percorso parlamentare che – per quanto fummo noi cattolici a soccombere – vide un confronto serrato ed a tratti anche un dialogo tra DC e PCI.
Il mondo e’ cambiato eppure ancora i nodi vengono al pettine.
I nodi che, ad esempio, riemergono in ordine alla legislazione sul “fine vita”, su altri argomenti a forte valenza etica, su temi che mettono in gioco ed impegnano la cultura fondativa, la “cifra” antropologica di ciascuna forza.
E’ del tutto illusorio sperare che anche a sinistra, anziché scivolare giù per la china di una rassegnazione nichilista, torni la memoria di quell’originario sentimento popolare che, pur declinato in opzioni politiche diverse, rifletteva una innata consapevolezza almeno per certi tratti condivisa ed una preoccupazione non del tutto dissimile in ordine al valore della vita?
Domenico Galbiati
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