E’ forse irrituale, nel contesto di un intervento politico ed in sede di partito, l’argomento che, tra gli altri, Stefano Zamagni, sabato mattina, nell’incontro promosso a Brescia dal Centro di Presenza di INSIEME, ha affrontato: quale dilemma si para davanti a noi e quale strada intendiamo perseguire, la via del “transumanismo” o piuttosto il cammino di un “neo-umanesimo”? Quale concezione assumiamo, in quanto “umani”, di noi stessi?
Quali attese, quali timori o piuttosto quali speranze coltiviamo circa gli sviluppi della nostra comune umanità? Quale coscienza avvertiamo della lenta eppure continua ruminazione che progressivamente elabora e rielabora la consapevolezza che abbiamo di noi stessi, della nostra posizione nel mondo, del significato che la nostra esistenza assume a fronte dell’ universo intero ? In che modo comprendiamo come le domande che hanno inquietato la mente ed il cuore dei primi pensatori – chi siamo ? – donde veniamo ? – dove andiamo ? – permangano intatte, uguali eppur ogni giorno nuove, e tuttora scuotono la nostra coscienza, pur dopo l’immane (?) progresso della cultura, del pensiero filosofico, delle scienze della natura e di quelle sociali ?
Ci rendiamo conto come questo domandare incessante, mai delegabile ad altri ed a cui, sia pure se non messo espressamente a tema, nessuno, nella sua irripetibile singolarità, può sottrarsi, oggi assuma un andamento vorticoso, quale forse mai è stato osservato in altre epoche storiche? Abbiamo raggiunto, con gli incessanti sviluppi delle biotecnologie – soprattutto nel campo della genetica e delle neuroscienze – una capacità di intervenire anche sui profili più intimi e più riposti della nostra stessa impalcatura biologica, tale da esercitare quello che potremmo chiamare un “impatto antropologico” così forte da farci credere di poter essere demiurghi della nostra stessa vita, addirittura creatori di noi stessi.
In effetti, rischiamo di andare incontro ad una pericolosa distorsione che quanto più ci allontana dal concepire la vita come “dono”, tanto più ci imprigiona in un orizzonte talmente solipsistico e circoscritto da compromettere la ragione ultima della nostra stessa libertà. Non lo dicono studiosi “bigotti”, oscurantisti nemici della scienza, bensì pensatori a tutto tondo laici, ad esempio, un campione del pensiero post-metafisico come Jurgen Habermas.
Ma tutto questo ha qualcosa a che vedere con la politica? La quale deve sì’ avere lo sguardo lungo e saper penetrare la cortina del tempo prossimo per poter governare i processi che ci attendono, eppur non deve smarrirsi nelle nebbie di un futuro di cui appena si intraveda una fisionomia ancora così lontana. In effetti, per nulla lontana.
Non vorrebbe dire infilarci, a dispetto della immediata e quotidiana concretezza dei temi che ci travagliano senza posa, in una sorta di filosofare astratto ed inconcludente? Senonché, non ha forse ragione Aristotele quando – come sabato ci ha ricordato Zamagni, nella splendida chiesa di San Cristo, che chiamano “Cappella Sistina” di Brescia, dove gli affreschi riproducono il ciclo pittorico michelangiolesco – afferma che filosofia e politica di fatto coincidono o almeno si sovrappongono, talché il pensiero è muto se non si traduce in azione e quest’ultima è cieca se non risponde al pensiero che la precede ?
Noi, figli del nostro tempo straordinario, siamo fin d’ora nel pieno di queste tematiche: il nascere ed il morire, le manipolazioni genetiche, i progressi nel campo delle scienze cognitive e dell’IA. Sono ormai pane quotidiano dell’agenda politica e non più, in nessun modo, aggirabili. La “biopolitica” si impone come un ambito privilegiato della nostra riflessione.
Si tratta di temi ardui, che non possono essere snocciolati uno per uno, bensì costituiscono un insieme di questioni che esigono la messa a punto, anche in sede politico-istituzionale, di metodiche di analisi e di confronto che non ne compromettano l’intensità e soprattutto non strumentalizzino la loro valenza etica ad argomenti di tutt’altra natura.
In questo senso, riteniamo che oggi ogni forza dovrebbe interrogarsi ed, in un certo senso, ripensare la propria cultura e la relativa proposta politica in funzione di quella che potremmo chiamare una sorta di “rifondazione antropologica”, una riflessione aperta, libera dagli scheletri delle passate ideologie, diretta a comprendere quanto gli stessi valori della libertà, della giustizia sociale, della democrazia non siano in nessun momento dissociabili dal più rigoroso rispetto della dignità della persona e della vita. Del resto, ci si dovrebbe chiedere, anche da parte di chi non crede, perché fioriscano tanti studi sul cosiddetto “transumanesimo”.
Abbiamo smarrito la dimensione della “trascendenza”. La quale, per quanto molto abbia a che vedere con la dimensione religiosa della vita, è talmente connaturata alla coscienza di ciascuno da essere, di fatto, irrinunciabile, cosicché, quando non è espressamente riconosciuta, pur senza saperlo, ce ne costruiamo dei surrogati, nel vano tentativo di riempire un vuoto incolmabile. E forse ci proviamo anche con le tesi “transumante”.
Come se volessimo, se così si può dire, “immanentizzare” quella domanda di trascendenza di cui, anche nel tempo globale della secolarizzazione compiuta, continuiamo ad avere una inguaribile nostalgia.
Domenico Galbiati