E’ profondo il malessere di cui soffre la sanità nel nostro Paese e le ripetute aggressioni, che si verificano negli ospedali ed altri luoghi di cura, contro medici e personale sanitario ne rappresentano un sintomo, fino a qualche anno fa, impensabile. Un dato che, peraltro, si inscrive in un incremento della violenza che pervade, in varie forme e su molti versanti, la vita delle nostre comunità, addirittura nei contesti dell’ intimità familiare e, perfino, nei confronti dei minori. E’ un po’ come se valesse una legge di “polarizzazione” anche nei comportamenti della vita quotidiana ed una estremizzazione difficilmente contenibile sul piano delle emozioni.
C’è stata, ad ogni modo, una brutale e brusca accelerazione delle disfunzioni e delle omissioni di un sistema sanitario che, alla prova dei fatti – governasse la destra o piuttosto la sinistra – non ha saputo interpretare l’ impianto, la vera natura e lo spirito della riforma sanitaria dell’ ormai lontano 1978. Il sistema ha virato verso una lettura aziendalistica, produttivistica, efficientistica, consumistica ed economicistica della sanità che è stata la prima fonte di una serie di processi che stanno facendo saltare il banco.
Il cedimento della classe politica sul fronte della salute è stato, anzitutto, culturale. Una classe politica che si è lasciata impunemente colonizzare, anche in un campo talmente delicato e diverso, dalle magiche parole d’ordine del lessico aziendale. A cominciare dal mito di un efficienza orientata ad un difficile equilibrio tra qualità della prestazione e risparmio delle risorse, in cui la seconda preoccupazione ha finito per prevalere sulla prima. E dalla convinzione che, anche in medicina, in un ambito che ricorre alle conoscenze scientifiche, ma non si esaurisce in esse, valga sempre e comunque una causalità assolutamente lineare dei processi. Tale per cui l’evidenza dei dati strumentali appanna la competenza “clinica” ed alla lunga questa china scivolosa presenta il conto. Anche sul piano di un progressivo impoverimento della relazione tra medico e paziente.
Ora si cerca di chiudere la stalla dopo che sono scappati i buoi. Ma non servono i provvedimenti che la destra di governo non sa immaginare se non in termini di caserma e di ordine pubblico.
Se il sistema non è in grado di rispondere in modo tempestivo neppure alle domande più impellenti non servono a nulla l’arresto in flagranza di reato o l’inasprimento delle pene per contenere una violenza portata fino nel cuore dei reparti di degenza. Se un medico non è in grado di stabilire un relazione positiva con il paziente che gli si affida e con il suo contesto familiare-affettivo perché nessuno gli ha insegnato come fare e nessuno glielo chiede, perché è distratto da altre incombenze professionali a latere, perché non ha tempo di farlo, perché non gli sono dati spazi e strumenti per poterlo fare, non saranno i poliziotti in corsia a conferirgli il prestigio e l’autorevolezza che gli manca.
Ci vogliono, ma non bastano, maggiori finanziamenti, che, però, non avrebbero l’ efficacia che è legittimo attendere da maggiori investimenti se questi non fossero accompagnati da una importante rivisitazione della “governance” complessiva del sistema. Riconoscendo, anzitutto, esattamente il fatto che di “sistema” si tratta, cioè di un insieme strutturato ed organico di livelli operativi e di responsabilità, di competenze e di funzioni, laddove i momenti critici – ma anche potenzialmente creativi – stanno nei punti di congiunzione di questi diversi versanti e nella loro effettiva integrazione, che non si risolve in una mera e sequenziale contiguità.
La crisi del sistema sanitario è, comunque, una questione molto complessa che non si esaurisce sul piano dell’entità dei finanziamenti o della revisione degli assetti organizzativi e gestionali dei servizi. Esige, a monte – anche se può sembrare un discorso astratto e dilatorio – una riflessione culturale ed antropologica su cosa siano e come, in quest’ epoca di transizione, debbano essere ripensate “salute” e “malattia”. Questione molto impegnativa, che non si esaurisce in poche battute e su cui si dovrà tornare. Così come sull’ “onnipotenza” della medicina e sulla nostra crescente incapacità a reggere la sfida ed il potere della morte.
Domenico Galbiati