La mancata introduzione di un sistema di carriere separate fra giudice e pubblico ministero si è oramai protratta”al di là di ogni ragionevole” limite! Basti pensare che, già nel 1997 (!), una specifica risoluzione del Parlamento europeo riteneva tale riforma non più procrastinabile perché veniva fin d’allora considerato ” necessario assicurare la terzietà del giudice giudicante attraverso la separazione della carriera del magistrato inquirente”.
Autorevole presa di posizione che mirava ad armonizzare il nostro sistema ordinamentale con quello degli altri Stati dell’Unione (e del resto del mondo), nei quali la carriera del p.m. è nettamente separata da quella dei giudici: con la sola apparente eccezione della Francia dove, tuttavia, la pubblica accusa si distingue per avere un diverso CSM, per la
discrezionalità nell’esercizio dell’azione penale e per essere alle dipendente dell’esecutivo.
Peraltro, tale ingiustificata “omissione legislativa” rimasta insensibile anche di fronte al responso di circa 10 milioni di voti favorevoli alla separazione delle carriere espressi nel referendum abrogativo del 21 maggio 2000 (pur rimasto inefficace per mancanza del quorum), rappresenta un grave ostacolo alla piena attuazione del “giusto processo”
ideato con la legge delega del febbraio ’87 n.81, introdotto nel nostro ordinamento con il DPR 22 settembre ’88 e solennemente proclamato nella novella costituzionale di cui all’art.111 Cost. (legge cost. 27 nov.1999 n.2)
con la quale è stato categoricamente stabilito che il legislatore deve eliminare tutto ciò che può impedire al giudice di essere ed apparire ” terzo ed imparziale”.
In altri termini, è lo stesso Costituente che ha, così, inteso dare piena attuazione al regime accusatorio, il quale non tollera, per sua natura, alcuna forma di commistione organica e funzionale tra chi accusa e chi è chiamato
a giudicare. Il che vuol dire che, per la Costituzione, non basta più che venga garantita l’autonomia e l’indipendenza della intera Magistratura (p.m. compreso) verso l’esterno e rispetto agli altri Poteri, ma occorre che
appaia assicurata l’indipendenza funzionale (imparzialità) e l’autonomia organizzativa (terzietà) del giudice anche all’interno del sistema giustizia e nei confronti del p.m. in particolare!
Ne discende che il giudice: non deve più avere vicinanza anche solo strutturale con una delle “parti” processuali (qual è il p.m.); non può continuare ad essere rappresentato dai p.m., oltre che nell’ambito degli organismi associativi (leggasi “correnti”), anche in quello istituzionale (CSM ed i Consigli Giudiziari) laddove si è chiamati ad esprimere giudizi sulla stessa professionalità ed a decidere addirittura sulla progressione in carriera anche dei giudici. Tant’è che, sotto questo ultimo profilo, è stato necessario l’intervento del legislatore (con la legge n.44 del 2002) per
ricondurre almeno la composizione dei membri togati presso il CSM al reale rapporto numerico di uno a tre fra giudici e p.m.!
Né, per altro verso, il giudice può rischiare che nella pubblica opinione si radichi il convincimento dell’equivalenza e della fungibilità fra la figura “estranea” del giudicante e quella necessariamente “di parte” dell’inquisitore. Infatti, volendo continuare a tenere insieme le due contrapposte categorie, a prevalere non sarà la pretesa comune cultura della giurisdizione bensì quella dell’inquisizione!
Invero, dall’entrata in vigore del nuovo codice processuale, sotto l’effetto di svariate forze dinamiche che hanno determinato una profonda trasformazione dell’intero assetto sociale anche a livello globale, la funzione investigativa attribuita al p.m. ha trovato spazi operativi, mezzi ed occasioni di intervento diretto prima inimmaginabili: determinandosi, così, un progressivo spostamento dell’equilibrio verso la sfera delle indagini investigative condotte dal p.m., il quale ha finito, così, con l’acquisire una rilevanza tale da focalizzare l’attenzione sociale solo sul momento
inquisitorio del procedimento penale.
Quel che ne è derivato è la perdita di autorevolezza e della stessa centralità del Giudice le cui pronunce, troppo spesso tardive, sono accolte con indifferenza e spesso con disappunto dal “tribunale ombra” costituito da un’opinione pubblica distratta che ha già appagato la propria sete di giustizia nel corso del dibattito mediatico o che ha trovato, a volte, piena soddisfazione solo nelle “ricadute” sostanzialmente sanzionatorie già nel corso delle indagini su inquisiti più o meno eccellenti.
Non è, quindi, un caso che taluni pubblici ministeri, anche se privi di incarichi elettivi all’interno delle loro associazioni, riescano ad occupare la scena pubblica nei più disparati dibattiti sulla Giustizia, oltre che su vari
aspetti delle vicende sociali, perché chiamati in causa solo sulla base della notorietà acquisita nella conduzione di indagini clamorose: giungendo a destare allarme fin dentro i palazzi della politica anche mediante una loro
semplice esternazione. Come, pure, non sorprende che siano stati quasi sempre noti esponenti dell’accusa ad assumere incarichi politici, di alta amministrazione, e, persino di governo locale o nazionale: fino a proporsi
come capi di movimenti o di partiti politici!
Certamente non basta separare le carriere per poter efficacemente governare lo spiegato processo evolutivo (o involutivo, che dir si voglia) della funzione inquirente.
Tuttavia, il raggiungimento di tale obiettivo costituisce pur sempre un decisivo segnale di discontinuità rispetto ad una situazione anomala fin qui caratterizzata dalla esponenziale e progressiva espansione della funzione accusatoria cui non corrisponde una crescita altrettanto incisiva della funzione giudicante: messa in crisi, quest’ultima, sia dalla sua ben nota congenita inefficienza, sia anche dagli stessi effetti perversi scaturenti dalla iperattività della pubblica accusa.
Infatti, solo una volta riusciti a separare in modo organico le due “opposte” funzioni, sarà possibile attuare una vera riforma ordinamentale della Giustizia: che sia capace di dare piena attuazione al principio del giusto processo (“due process”) mediante il recupero della necessaria “centralità” del giudice, che oggi, paradossalmente, appare essere
“neutralizzato” piuttosto che “neutrale”.
Carmelo Rinaudo Vice Presidente del gruppo romano dell’Unione Giuristi Cattolici Italiani