E se il “riformismo” delle forze progressiste – soprattutto se commisurato alle sfide di una stagione storica straordinaria – non fosse altro che una forma di conservatorismo più o meno edulcorato, perché gli elettori dovrebbero preferire la copia piuttosto che l’originale?

Detto altrimenti, oggi in che cosa crede davvero la sinistra? Ammesso che ne abbia, quali ambizioni coltiva? Ha ancora una spinta ideale, una visione del mondo ed un progetto per il futuro?Oppure lo ha inesorabilmente smarrito con l’impianto ideologico di stampo marxista che ha dovuto abbandonare?

È ancora in grado di accendere una passione? Oppure si accontenta di traccheggiare sulla cresta degli eventi, preoccupandosi di cogliere, qua e là, qualche vantaggio marginale?

Crede che la storia sia un cammino aperto che ci si squaderna davanti come un ventaglio di esiti possibili che sono rinviati alla nostra responsabilità, oppure è rassegnata a concepirla come un processo necessariamente orientato ad un approdo scontato, imposto da poteri autoreferenziali – economici o tecnologici – che nulla hanno a che vedere con il primato della politica? Ed ha, nel contempo, smesso di credere – secondo una ingenua postura illuministica – nei magnifici e progressivi destini di un progresso che starebbe nell’ordine naturale delle cose e, quindi, da sé, aprirebbe a prospettive illimitate?

Accendere una forte passione civile che dia sapore alla vita, un moto dell’animo che motivi e spinga all’azione esige che questa sia in grado di rispondere all’insopprimibile domanda di senso che è il tratto originario e fondativo della nostra interiorità.

Senonché, in questo nostro tempo, dare un senso alle cose è terribilmente difficile perché a fronte di fatti, eventi e mutamenti repentini che si sovrappongono confusamente gli uni agli altri, occorrerebbe uno sguardo capace di cogliere la complessità del quadro e, ad un tempo, guardare “oltre”. Cioè, avremmo bisogno di quella dimensione della trascendenza guardata da molti con sospetto perché ritengono che sia esclusiva del pensiero religioso. Invece non è così ed, anzi, costitutivamente appartiene a tutti, anche a chi formalmente non la riconosce. La sua declinazione sul piano politico si esprime nell’attitudine a guardare lontano e saper cogliere le più sottili increspature che anticipano e segnalano per tempo i sommovimenti più profondi che si vanno preparando nel corpo vivo di una società in perenne ed accelera trasformazione.
Si tratta di una dimensione che
abbiamo abbandonato per strada per cui fatichiamo a guardare più avanti della quotidiana contingenza delle cose che ci sospingono qua e là in uno smarrimento frustrante.

C’è da sorprendersi se, in un simile frangente, non resta che difendersi da un mondo avverso circoscrivendo attorno al proprio “io”, uno spazio che quanto più è ristretto, tanto più può essere preservato e difeso, reso immune dal rischio di incursioni indesiderate?

La destra populista, per sua natura, ha buon gioco a lisciare questa tendenza per il verso del pelo, anzi lo suggerisce e ci investe su politicamente. Ma la sinistra è in grado di sottrarsi a questa deriva se la sua principale bandiera è rappresentata da una declinazione dei diritti in chiave individualistica, piuttosto che in termini di carattere sociale, orientati a ricomporre un quadro di giustizia e di coesione solidale, come dovrebbe suggerire la sua connaturata vocazione popolare?

Ed ancora – tema su cui tornare – basta la classica cultura riformista oppure tutt’al più questa finisce per essere una pezza applicata ad un vecchio otre, per cui anche qui è necessario andare oltre?

Domenico Galbiati 

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