Sono ancora vive le emozioni suscitate dai successi italiani alle Olimpiadi di Tokyo 2020 e i festeggiamenti in patria, quelli istituzionali e quelli privati, sono lontani dal concludersi.
Un Paese spesso indotto a esami di coscienza doverosi, ma non entusiasmanti (alto debito pubblico, scarso sviluppo, bassa produttività, inverno demografico e così via), ha ragione a gioire di un successo, che premia talenti e disciplina di un settore della società. È incoraggiante scoprirsi migliori, aver migliorato i risultati del passato.
Il confronto vincente con Roma 1960, cioè 61 anni fa, mostra però cambiamenti clamorosi. Gli sport olimpici sono molto aumentati (a Tokyo 2020 cinque nuovi sport e anche nuove discipline) e quindi è più alto il numero delle medaglie assegnate. Vuol dire che conquistarne una è diventato più semplice? No, perché è fortemente aumentato il numero dei paesi che partecipano alle Olimpiadi (e anche il livello delle prestazioni minime per partecipare).
A Roma parteciparono 83 Paesi, diventati a Tokyo 2020 ne hanno partecipato 205. A Tokyo 2020 sono stati 93 i paesi che hanno vinto almeno una medaglia, a Roma erano stati 44. Inoltre, rispetto a Roma 1960, a Tokyo 2020 gli atleti sono più che raddoppiati (da 5.338 a 11.363, soprattutto per il passaggio delle donne da 611 a 5.470).
Dunque vincere una medaglia è diventato più facile o più difficile? Certo sono state assegnate più del doppio delle medaglie di Roma 1960 (1080 invece di 461). Ma il contesto è più competitivo e la valutazione cambia da disciplina a disciplina.
Alcuni sport hanno avuto una trasformazione profonda. Altri apparentemente meno. Per esempio a Roma vinse i 100m Armin Hari, tedesco occidentale, in 10’ netti. Gli afroamericani esistevano già (ricordate Jesse Owens?), ma i giamaicani erano di là da venire. 20 centesimi di differenza tra Hari e Jacobs, con tanti cambiamenti di piste, di scarpe, di sistemi di cronometraggio, di tecniche di allenamento e di nutrizione…. Ma non è il mio scopo approfondire la questione sul piano specialistico dello sport.
E’ straordinario, e fortemente rivelatore, il modo in cui in questi 60 anni il mondo dello sport ha rispecchiato, e contribuito a promuovere, le trasformazioni del mondo in cui viviamo. Il concorrente principale degli USA, che era l’URSS, è ovviamente la Cina: geopolitica dello sport. Qualcuno ha osservato che i paesi ai vertici del medagliere olimpico sono quelli del G20, cioè le economie più forti. Certo, è più raro che crescano atleti vincenti, dove non si è potuto investire in impianti e attrezzature. Ma oggi il G20 comprende paesi che non molto tempo fa avremmo classificato nel distinto girone dei PVS (dalla Cina al Brasile, dall’India all’Indonesia, dal Messico alla Corea). La globalizzazione significa anche moltiplicazione dei partecipanti attivi sulla scena mondiale.
Abbiamo nello sport la mondializzazione di modelli di valori e comportamenti, che non voglio idealizzare, ma sono un ambito nel quale il vincitore e lo sconfitto possono abbracciarsi. (“La logica dell’abbraccio” la chiama don Gionatan De Marco, responsabile dell’Ufficio Sport e Tempo Libero della CEI e che ha accompagnato la rappresentanza italiana a Tokyo). E poi la rivoluzione femminile, una partecipazione quasi decuplicata nel sessantennio, così evidente da non richiedere commenti.
Quanto all’Italia non guardo alle prestazioni sportive, e neanche mi chiedo se e come abbiano influite le vicende di politica sportiva degli ultimi anni. Guardo invece alla società italiana attraverso la finestra delle Olimpiadi, per cogliere lezioni da mettere a frutto.
A Roma 1960 l’Italia vinse 36 medaglie, una sola vinta da una donna (il bronzo di Giuseppina Leone). A Tokyo 2020 sono state 27 le italiane tornate con una medaglia al collo, che hanno dato un contributo importante al risultato complessivo, sebbene gli uomini restino in maggioranza (38). Il totale supera i 40 perché ovviamente un oro per la staffetta 4×100 significa medaglie per quattro atleti, e così via.
Si è molto discusso sulla presenza di nuovi italiani tra i nostri partecipanti alle Olimpiadi, e Malagò ha indicato il 38%. Sembra che in realtà questa percentuale valga per la squadra di atletica leggera e che la presenza negli altri sport fosse minore. Ma sebbene diversi abbiano partecipato a finali o anche stabilito primati nazionali (Daisy Osakue, ad esempio), tuttavia i nuovi italiani medagliati sono ancora pochi: Marcell Jacobs, ed Eseosa Desalu con lui nella 4×100, il lottatore Abraham Conyedo, la ginnasta Daniela Mogurean.
“È un’Italia multietnica e un’Italia super integrata”. Ha commentato Malagò, e ha proseguito: “Abbiamo portato atleti in rappresentanza di tutte le regioni italiane e atleti nati in tutti e cinque i continenti”. L’apporto alle rispettive nazionali di atleti di origine straniera era evidente, già molti anni prima che da noi, quando gareggiavano inglesi, francesi o olandesi. Era un fenomeno con cause storiche specifiche, che ora si generalizza. Del resto nelle scorse settimane per motivi di calciomercato si è parlato molto del calciatore Lukaku, che passa da una squadra italiana a una francese, ma gioca nella nazionale belga, sebbene i suoi antenati non fossero né fiamminghi né valloni.
Per alcuni, quello che chiamo dei nuovi italiani, è ancora un tema delicato. Ma fanno parte delle nostre risorse, si tratti di adottati, di immigrati, di figli di immigrati, di figli di coppie miste, di atleti naturalizzati, di oriundi e così via.
Una cosa balza agli occhi: siamo andati bene, pure in una Olimpiadi competitiva, perché abbiamo messo in campo più talenti rispetto al passato, appunto i talenti delle donne e dei nuovi italiani. Lo dovremmo fare di più anche nelle Olimpiadi della vita quotidiana, le Olimpiadi economiche e sociali, dove è decisivo far crescere l’occupazione femminile, parificare opportunità e remunerazioni, dare a tutti la possibilità di manifestare i propri talenti e di arricchirne l’Italia.
Il capitale di prestigio, di simpatia, di fiducia e di incoraggiamento, che i nostri organizzatori sportivi e i nostri atleti hanno riportato in casa, va investito nel valore educativo dello sport, nel farne leva più diffusamente per una proposta di vita attiva alle ragazze e ai ragazzi, soprattutto a quanti tra loro (come i Neet) restano ai margini della vita sociale.
Diverse voci si sono levate per sostenere la realizzazione di impianti sportivi nelle scuole che ancora ne difettano. È un giusto obiettivo, ma almeno altrettanto occorrono impianti e maestri di territorio, forse pubblici, forse privati, ma soprattutto sostenuti da una ampia messe di iniziative di sussidiarietà, delle famiglie e di chiunque avverta una preoccupazione educativa (oratori, aps, associazionismo giovanile…) lasciando agli enti locali e in genere alla mano pubblica il dovere di una risposta efficace nella sussidiarietà.
Vincenzo Mannino