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La sussidiarietà e i corpi intermedi – di Flavio Felice

Tra i principali risultati della moderna epistemologia delle scienze annoveriamo la consapevolezza che la competizione delle idee produce un ordine, rispetto alle incalcolabili circostanze della vita reale che, nella sua totalità, non sarebbe accessibile ad alcuna persona e ad alcuna istituzione; per dirla con le parole del Nobel Friedrich von Hayek: «Perché il sistema funzioni, l’essenziale è che ogni individuo possa agire in base alla sua particolare conoscenza, sempre unica, almeno in quanto si applica a circostanze particolari». È questo il fondamento logico del principio di sussidiarietà.

Il principio di sussidiarietà disegna l’articolazione tra i soggetti che compongono la plurarchica società civile: Luigi Sturzo li definiva «enti concorrenti» per metterci al riparo dalla deriva neo-corporativa, anticipando anche la nozione di «repubblica della sussidiarietà», espressa dalla riforma costituzionale del Titolo V del 2001. Se la persona e la famiglia hanno una legittimazione autonoma dallo stato, ne consegue che questo deve rispettare le suddette dimensioni, senza alcuna pretesa egemonica. Se in termini negativi è opportuno che una comunità di ordine superiore si astenga dall’intervento, nel rispetto delle comunità di ordine inferiore e più prossime alla conoscenza del problema, in termini positivi, una comunità di ordine superiore dovrà invece intervenire in modo suppletivo e temporaneo con strumenti adeguati ad aiutare le comunità a esplicare le loro funzioni e a svolgere quei compiti che competono a loro in modo primario.

Sotto il profilo storico, tale principio rappresenta un cardine della dottrina sociale della Chiesa e contrasta con il centralismo tipico dei sistemi che prediligono soluzioni stataliste-monopolistiche. Il principio è formulato in modo organico nel 1931, nell’enciclica di Pio XI Quadragesimo anno, sebbene si registrino pronunciamenti che vanno da Johannes Althusius ad Abraham Lincoln; a proposito di Lincoln, si consideri quanto affermato nel Farewell Address del 1861: «L’oggetto legittimo del governo è realizzare quello che una comunità avrebbe dovuto fare, ma che non è stata in grado di fare, o quello che i singoli non possono fare da soli, facendo appello alle proprie capacità. Ma il governo dovrebbe evitare di interferire in tutto quello che la gente può e sa fare da sé».

La formulazione di Pio XI coincide con l’ascesa dei totalitarismi in tutta Europa. Al di là delle differenze, il totalitarismo presenta una cifra comune: assorbire l’azione dei corpi intermedi/enti concorrenti della società civile e di convogliarla sotto il cappello dell’autorità politica, il cui baricentro è il partito. A tal proposito, valga il motto mussoliniano: «Tutto nello Stato, dello Stato e per lo Stato, nulla al di fuori dello Stato».

La nozione di corpi intermedi/enti concorrenti non è nuova. Sarà Edmund Burke a dichiarare che, sebbene si condivida la suddivisione tra vita privata e vita pubblica, «amare il piccolo plotone al quale si appartiene nella società rappresenta il primo principio del sentimento pubblico». E ancora più esplicito è stato Alexis de Tocqueville, per il quale «Nei paesi democratici la scienza dell’associazione è la madre della scienza; il progresso di tutto il resto dipende dal progresso di quella»; il principio di sussidiarietà è, dunque, un presidio a difesa della società libera e democratica.

Alla base del principio di sussidiarietà, nella sua dimensione orizzontale, c’è la consapevolezza che tra lo stato impersonale e l’individuo abbandonato a se stesso, si profili una prima linea di difesa rintracciabile nei corpi intermedipiccoli plotonimondi vitali, intesi come enti concorrenti, come ad esempio la famiglia, le imprese, le scuole, le associazioni, le chiese, e che il loro spontaneo agire sia indispensabile per un equilibrato sviluppo della persona umana ed una più equa organizzazione politicaeconomica e culturale.

Possiamo riassumere il carattere civile di una società ordinata secondo il paradigma personalista della sussidiarietà nell’affermazione che lo stato non deve avocare a sé le competenze di ambiti che appartengono ad istituzioni di ordine inferiore. Semmai, deve sorvegliare che questi livelli adempiano adeguatamente ai loro compiti e intervenire solo nel caso in cui essi non ce la facciano, prima per sostenerli e, solo dopo, qualora non riuscissero a rispondere ai bisogni, per sostituirli temporaneamente. In breve, vale l’insegnamento di Pio XII che sta alla base anche del principio repubblicano: «civitas propter cives, non cives propter civitatem».

Flavio Felice

Pubblicato su Avvenire (CLICCA QUI)

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