Il rapporto tra Trump ed Elon Musk non è una curiosità a latere delle presidenziali USA, né l’abbraccio un po’ folkloristico tra due soggetti, ciascuno dei quali, a suo modo, strambo. Anzi, è simbolico di un accrocchio tra tecnica ed aggressivo capitalismo neo-liberista, benedetto dal populismo, che puo’ rappresentare il “default” della politica, intesa come ampio e libero discorso pubblico, cui concorrano tutte le voci interessate a costruire, democraticamente, il
“bene comune” e la fisionomia specifica della comunità, grande o piccola, cui si appartiene.
Siamo, probabilmente, alla soglia di una profonda mutazione strutturale del “potere”, dove la legge inappellabile del massimo profitto e l’ “hybris” tecnologica la fanno da padroni e, di fatto, comprimono e soffocano il potere della politica, fino a soggiogarlo.
Si potrebbe dire che siamo esposti al rischio di avviarci verso una differente forma – che nasce nel cuore libero e democratico dell’ Occidente – di “auto-crazia”. Dove il prefisso non sta ad indicare la presenza al vertice di un “simil-dittatore”, bensì una sorta di metallica “automazione” del potere, cioè la sua meccanica riduzione alla circolarità di un freddo calcolo e di un accordo tra interessi che congiuntamente difendono e propugnano la loro “particolarità”, del tutto a prescindere, anzi in alternativa, alla composizione nel quadro dell’ “interesse generale” della collettività.
Il connubio tra i due andrà seguito con attenzione nei suoi sviluppi, visto che l’esordio di Musk non è niente meno che da “alter ego”, omologo o quasi, del Presidente, come si è visto nel colloquio con Zelensky, sicuramente uno dei più delicati in questa fase di avvio della nuova presidenza, eppure condotto congiuntamente dai due.
Non è escluso che si riveli un flop, vista l’ imprevedibilità e l’ intemperanza dei personaggi in gioco.
Eppure potrebbe, invece, via via consolidarsi dal momento che, in linea generale, sembra fin d’ora alludere al “necessario” sviluppo di una struttura profonda dei poteri che governano il mondo, che nulla ha più a che vedere con la democrazia come l’abbiamo intesa fin qui.
Sviluppo o viluppo involutivo, come detto, “necessario” perché rispondente a come stanno davvero le cose, cioè dotato di una ineludibile forza intrinseca a quel concerto di poteri di cui si diceva sopra.
Auguriamoci che il mondo libero che oggi, più che mai, ha bisogno dell’Europa e del suo immenso bagaglio di cultura umanistica – l’arma più potente di cui, sia pure senza esserne consapevoli, disponiamo – si fermi prima di scivolare giù per la china che Emanuele Severino ritiene non solo necessaria ed obbligata, ma addirittura “incontrovertibile”. Una deriva, cioè, che veda la tecnica trasformarsi – per virtù propria – da “mezzo” a “fine”. Condannando, in tal modo, l’Occidente all’abisso del nichilismo.
Domenico Galbiati