Dicembre 1971/dicembre 2021: cinquant’anni dalla pubblicazione del libro “Teología de la liberación: Perspectivas (Lima, CEP, 1971), scritto dal domenicano Gustavo Gutierrez, allora di 43 anni. Oggi ne ha 93. Fu tradotto e pubblicato in Italia dalla Casa editrice Queriniana nel 1972, il cui brand è “libros legĕre, saecla víncere”. A cinquant’anni di distanza si deve prendere atto che “la Teologia della liberazione” non ha vinto il secolo: è “evaporata” molto prima. Lo stesso Gutierrez già nel 1988 ha scritto una prefazione autocritica sulla curvatura marxiana di quel tentativo di porsi cristianamente “del lado de los pobres”.
A questo punto, interessa ancora a qualcuno di noi, in questo tramonto del 2021? A prima vista, solo a chi, ventenne negli anni ’60, conserva qualche nostalgia di “morte stagioni”. Quando, sì, un movimento di liberazione si sviluppò su scala mondiale. Intanto, dei popoli africani che conquistavano l’indipendenza statale, dentro confini segnati dal rapace colonialismo europeo. I quali si riveleranno quasi immediatamente angusti e artificiosi per una miriade di etnie e territori, fino a generare guerre tribali e genocidi. E poi la guerra del Vietnam, la Rivoluzione culturale cinese, che si presentò in Europa con la maschera della liberazione. L’America latina fu attraversata da dittature militari sanguinarie e da movimenti di liberazione armati. Padre Camilo Torres viene ucciso in un’imboscata dell’esercito colombiano il 15 febbraio 1966, Che Guevara dall’esercito boliviano il 9 ottobre del 1967. Nelle società opulente dell’Occidente, la liberazione fu più soft, più socio-culturale e più generazionale, benché non siano mancati tragici imitatori in Italia e in Germania, anche cattolici, del guerrillismo latino-americano.
Alle spalle della teologia di Gutierrez stavano il Concilio Vaticano II con la Costituzione dogmatica Lumen Gentium (21 novembre 1964) e con la Costituzione pastorale Gaudium et Spes (7 dicembre 1965), le Encicliche Mater et Magistra (15 maggio 1961), la Pacem in terris (11 aprile 1963) – che un irridente precursore dei neocon – Indro Montanelli – ribattezzò “Falcem in terris – la Populorum progressio (26 marzo 1967), la Seconda Conferenza generale dell’episcopato latinoamericano a Medellin in Colombia, inaugurata da Paolo VI il 24 agosto 1968…
Ma le categorie di interpretazione e di autocoscienza dei movimenti di liberazione furono, allora, principalmente offerte dai vari marxismi. Non c’era molto altro sulla piazza.
Il kennedismo della “new frontier” ci aveva provato, con la sua ideologia democratico-progressista, istituendo nel marzo del 1961 i Peace Corps, fatti di giovani volontari, “missionari di democrazia” e di sviluppo in Medioriente, Africa e America latina. Ebbero poca fortuna, sia a causa dell’intervento americano in Viet-nam sia a causa dell’appoggio fornito alle feroci dittature militari nell’America latina. Il Partito democratico americano predicava bene, ma razzolava malissimo. E fu cosi che molti giovani, cattolici e non, si rivolsero al marxismo, a quello “buono”, si intende, che tentava di combinare la lotta di classe e il nuovo umanesimo, il “già” e l’utopia del “non ancora”, il godimento dei benefici della società opulenta e l’impegno per i poveri del Terzo mondo.
Ci limitiamo qui a prendere atto che il castello luminoso delle categorie marxiane è crollato. Il neo-liberismo aggressivo della Thatcher e di Reagan, il fallimento del sistema degli Stati comunisti, le enormi trasformazioni della globalizzazione ne hanno minato le basi sociali e teoriche. Un impianto riformistico, una terza via tra comunismo e neo-capitalismo, avevano provato a tracciarla, prima la Evangelii Nuntiandi di Paolo VI (8 dicembre del 1975) e poi la Terza Conferenza generale dell’Episcopato latino-americano a Puebla (28 gennaio/13 febbraio 1979), con Giovanni Paolo II. Su questa strada proseguirà imperterrita la serie delle Encicliche sociali del papa polacco. Ma la realtà prendeva, intanto, un’altra strada. Il movimento cattolico reale ha visto consumarsi l’ala “rivoluzionaria”, assorbita dai movimenti e dai partiti marxisti, e ingrossarsi quella conservatrice dei teo-con, alleati con i neo-con e con i teo-pop, da Trump, ad un devotissimo Salvini, ad una nota “donna cristiana” come Giorgia Meloni.
Tuttavia, è proprio la “culture war” dichiarata dai catto-capitalisti e dagli “atei devoti” cristianisti, che ha riportato, paradossalmente, in scena le urgenze della teologia della liberazione. Con veemenza crescente, essi hanno accusato l’indirizzo ecclesiologico e pastorale di Papa Francesco di essere una filiazione diretta dalla Teologia della liberazione e di aver rotto con l’orientamento riformistico dei predecessori. Per i suddetti critici, porsi “del lado de los pobres” significa essere “marxista” e “comunista”. Per i liberali, che più raffinatamente sanno distinguere tra “la teologia della liberazione” e “la teologia del popolo” argentina, alla quale è stato ispirato papa Francesco, significa, invece, essere “populista”.
Ma proprio l’eterno ritorno queste accuse infondate – appare una continuità dottrinale di fondo tra Giovanni Paolo II, Benedetto XVI e Francesco – sono la controprova che il nocciolo problematico della teologia della liberazione è tuttora incandescente sotto le sue ceneri. Il problema è come afferrarlo, senza bruciarsi le mani. Esso consiste sempre nella risposta alla domanda cruciale, che i cristiani si pongono da duemila anni: che cosa c’entriamo noi con il mondo? Anche perché le altre risposte finora elaborate non paiono brillanti.
Una, oggi prevalente, è quella della teologia catto-capitalista di origine americana, che il teologo Michael Novak venne, in una sera dei primi anni ‘2000, a illustrare all’Università Vita-Salute San Raffaele di Milano e che Massimo Borghesi ha minuziosamente radiografato nel suo libro “Francesco. La Chiesa tra ideologia teocon e ospedale da campo”: il capitalismo è l’ultima parola della civiltà, generato non dal calvinismo, ma, in realtà, dal cattolicesimo. Certo, è fondato su un radicale individualismo. Ma il cozzo degli egoismi individuali produce come “conseguenza involontaria”– è la mano invisibile di Adam Smith – un’armonia collettiva, perché il benessere dei ricchi gocciolerà spontaneamente verso il basso, verso i poveri, verso gli esclusi, verso le periferie.
Un’altra risposta è quella dei movimenti carismatici spiritualisti: con il mondo i cristiani non c’entrano nulla. Attendiamo “cieli nuovi e terra nuova”; nel frattempo costruiamo individualmente e comunitariamente – ma, mi raccomando, “comunità piccole”! – il nostro Welfare spirituale sulla terra che oggi provvisoriamente abitiamo. E’ una tendenza che si salda con ciò che Papa Francesco ha definito “introversione ecclesiale” e burocratico-clericale, volta ad auto-conservare il ruolo della Chiesa così com’é. Magari appoggiandosi allo Stato, secondo un duplice movimento, già denunciato da Papa Ratzinger: Verkirchlichung der Staates o Verstaatlichung der Kirche, ecclesializzare lo Stato, statalizzare la Chiesa.
La teologia della liberazione ha rifiutato tanto la risposta della “felicitas intramondana” catto-capitalista quanto quella spiritualista della “beatitudo ultramondana”. Ma l’estenuazione delle sue categorie marxiane non ha eliminato il problema della ricerca di una terza risposta, tra catto-comunismo in declino e catto-spiritualismo, da una parte, e, dall’altra, catto-capitalismo, sempre meno in ascesa.
Papa Francesco ci sta provando, a partire dall’Esortazione Apostolica “Evangelii Gaudium” (24 novembre 2013). Di qui, il discorso tenuto l’11 novembre del 2019 al “Council for Inclusive Capitalism”, i cui membri, che si definiscono “The Guardians”, sono i massimi dirigenti delle principali società mondiali, impegnati a “intraprendere azioni coraggiose verso la creazione di un capitalismo inclusivo”. Di qui gli incontri successivi, quale quello dell’8 dicembre 2020.
Lynn Forester de Rothschild, la fondatrice del “Council for Inclusive Capitalism” nonché proprietaria dell’Economist, già nel 2014 ha affermato, in linea con la Evangelii Gaudium, che “il capitalismo ha creato un’enorme prosperità globale, ma ha anche lasciato troppe persone indietro, ha portato al degrado del nostro pianeta e non è ampiamente considerato attendibile dalla società”. D’altronde, anche a sinistra si scrive di “Liberalismo inclusivo”, vedi ultimo libro di M. Salvati e N. Dilmore. Il repertorio delle risposte, per ora, è solo questo.
Giovanni Cominelli