“Chi di noi ha l’età per ricordare i primi tempi della contestazione ( fine anni 60 – inizio anni 70 ) sa che la noncuranza e la leggerezza ostentata anche da chi avrebbe avuto la responsabilità di giudicare e di punire, rispetto ad atti minori di vandalismo e disprezzo del bene pubblico, ha aperto la via a gesti ben più gravi e mortiferi.
Chi getta oggi il sasso e si sente impunito domani potrà buttare la bomba e impugnare la pistola. La “tolleranza zero” è per ogni parola o gesto di odio, supportata da una regola evangelica”. Lo afferma il Cardinal Martini in un lungo scritto che risale al dicembre 2001, tre mesi dopo lo schianto delle Torri Gemelle. E’ una lucida considerazione che si adatta del tutto anche alla contestazione subita da Eugenia Roccella al “Salone del Libro” di Torino.
La violenza è un tutt’ uno che si tiene da cima a fondo. Si sa o meglio si vede da dove nasca o almeno dove cominci, magari solo dalle parole – che possono essere lame taglienti che feriscono a fondo – ma non si sa dove vada a parare.
E’ suggestiva l’immagine del sasso evocata dal Cardinal Martini. Quando si lancia un sasso si sa da dove parta, ma non dove approdi. Ed è suggestivo il divario che corre tra “atti minori”, di (semplice ?) vandalismo ed i “gesti mortiferi”, la china terroristica e criminale che ne può derivare. E’ come se il Cardinale ci ammonisse a non farci prendere in contropiede dalla storia o meglio da eventi che sembrano trascurabili, così da poterli contenere in una parentesi ed invece ci sfuggono progressivamente di mano.
In effetti, pur senza allarmismi, bisogna essere molto attenti a non farci sorprendere inermi, moralmente inerti di fronte alle prime spire di un cammino tortuoso che, in una condizione di particolare allerta sociale, potrebbero condurci lontano, verso derive che abbiamo già sofferto.
Ci sono almeno tre aspetti che dobbiamo considerare, tali da rappresentare fattori di possibile sovra-esposizione del nostro tempo alla violenza. La violenza ha molte radici ed una di queste è la paura. E oggi la paura, in molte forme, a cominciare dall’insicurezza e dalla precarietà, dall’impotenza che molti avvertono, dalla fragilità affettiva che troppi soffrono è molto diffusa. La violenza cresce su sé stessa, si auto-alimenta. E’ una gramigna: appena attecchisce, intride il terreno e per quanto la si estirpi, basta che ne resti un tralcio perché torni a sviluppare un “caput Medusae” di radici via via più estese.
La violenza ha uno straordinario potere mimetico, colonizza l’anima e si camuffa, fino a rivestirsi di abiti ideali
Del resto, solo così chi li compie riesce a sopportare sé stesso e l’efferatezza dei genocidi che commette. Mi rendo conto che, partiti da Torino, stiamo andando troppo lontano, se non fuori tema, eppure ciò che è successo
al popolo tedesco, negli anni del nazismo, è un ammonimento da non scordare. Un popolo di straordinaria cultura, il
Paese di Goethe e di Kant, di Mozart e di Beethoven, di Lutero e di Meister Eckhard, di Freud e di Einstein, di Sophie e di Hans Scholl e di Dietrick Bonhoeffer e poi di Ratzinger è andato incontro ad una spaventosa involuzione.
La popolazione civile, forse gli stessi ranghi marginali del regime non erano tutti criminali, eppure la violenza si è fatta gesto quotidiano, diffuso ed incontenibile quando si è mimetizzata nelle forme di una missione salvifica, in nome dell’etnia e della nazione.
Domenico Galbiati