“……lo sforzo terapeutico non può avere come unico obiettivo il superamento della malattia quanto, piuttosto, il prendersi cura della persona malata”. La persona, dunque, nella sua dimensione integrale, non la malattia come tale, al centro del progetto terapeutico e di tutti gli apparati istituzionali, organizzativi e gestionali che lo supportano. Ed ancora: “La vulnerabilità emerge come una cifra insita nell’ essere umano…”.

Sono due passaggi illuminanti del documento che i Vescovi del Triveneto hanno approvato contro il “suicidio assistito” e l’ apertura che, nei suoi confronti, sta assumendo, in modo particolare, la Regione Veneto (CLICCA QUI).

Evidentemente cosi affamata di “autonomia” da sostituirsi, come lamentano i Vescovi, al legislatore nazionale perfino in una materia talmente complessa e delicata. Rischiando di creare – sono ancora i Vescovi a lamentarlo – una sorta di migrazione suicidaria interna al nostro Paese, alla ricerca della Regione in cui prima o più facilmente si possa porre volontariamente termine alla propria esistenza.

Molto vi sarebbe da dire su quanto sia pretestuosa quella difesa dei valori di cui vorrebbe ammantarsi una destra che ben poco o nulla concede ad una visione cristiana della vita propria e di quella altrui, cominciando dai migranti, per quanto molti cattolici si siano lasciati incantare dai rosari esibiti da Salvini e da un ossequio formale nei confronti della religione concepita come momento d’ ordine.

Ad ogni modo, le due citazioni di cui sopra, contestualizzate l’ una nell’ altra, sono importanti anche se vengono lette come presupposto e linee d’indirizzo delle politiche sanitarie e sociali di cui l’Italia ha bisogno.

“Curare” e “prendersi cura” sono due versanti di un’ unica preoccupazione che associa alla competenza clinica dell’ operatore sanitario la sua attitudine solidale, perfino empatica nei confronti del paziente che gli si affida. Tanto più necessaria quanto più avanza la tecnologizzazione di una medicina che rischia di apparire fredda, asettica e disincantata, forse addirittura cinica nella sua lucida oggettivazione del male, di fronte al dolore ed alla sofferenza morale del paziente.

In altri termini, curare non è solo “aggiustare” gli equilibri funzionali o i parametri umorali dell’ organismo, ma anche riportare la malattia dentro l’ orizzonte di senso della vita. In fondo, questo succedeva più facilmente quando l’uomo di fronte alla malattia era sostanzialmente disarmato ed il senso del limite, la percezione della propria vulnerabilità era sperimentata e vissuta con una intensità tale per cui, se per un verso poteva apparire alienante, per altro verso, al contrario, accendeva il sentimento della propria umanità, cosicché la malattia si poneva come un evento che stava dentro il perimetro della vita, non fuori, né necessariamente contro.

Oggi la presunzione di onnipotenza attribuita alla medicina falsa questa prospettiva e la malattia non appare altro che la maledizione di un destino malevolo distruttivo ed alienante, la condanna ad una solitudine contro cui, in ultima analisi, nulla si può, a dispetto dei progressi della scienza. La cosiddetta “umanizzazione” della medicina passa da qui, dalla capacità di rovesciare la vulnerabilità in risorsa.

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